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Erdoğan, la resa dei conti del sultano

Definire, come fa Erdoğan, il quindicenne Berkin Elvan un terrorista è una provocazione a effetto già usata nella scorsa estate contro i giovani e i meno giovani di Gezi, Taksim e poi dell’intera Istanbul europea e asiatica che gli si ribellava. E’ il colpo sleale del pugile all’avversario dopo averlo legato in clinch, magari una testata, che se prende l’arcata oculare lo mette nella condizione del gettare la spugna per dissanguamento. A chi lo subisce può però creare una reazione d’orgoglio e nella bagarre voluta e attuata non è detto che il dissanguato alla fine perda il match per abbandono o ko. Oltre la metafora sportiva, il premier turco uscente sta facendo di tutto per esasperare un’opposizione di piazza che lo pressa da mesi. Il super io dell’ex sindaco salito molto in alto, tanto da sentirsi un Mahdi che lotta contro nemici interni ed esterni, non ha tenuto conto dei consigli di amici di partito, cercando avversari anche fra le pareti della casa politica islamica. Oggi calca la scena in solitudine contando sull’antico carisma sempre più offuscato dagli scandali in cui trascina la stessa famiglia, che già con la figlia Sumeyye sembra praticare distacchi. 

Alla vigilia del primo dei tre appuntamenti-verità per lui e per l’Akp – le amministrative che si terranno fra due settimane – si ritrova obiettivo della ripresa di un’infuocata contestazione alla quale risponde coi detestabili colpi di testa che tatticamente hanno la finalità d’infuriare l’avversario e spingerlo su un terreno sempre più violento. Lui sa che lì può contare su temibili apparati repressivi e sul desiderio d’ordine che alberga in una gran massa di cittadini. Inoltre il premier sta esasperando la strategia della divisione della popolazione: chiama in causa lo strabordante elettorato che lo segue da anni e con un briciolo al di sotto del 50% gli fa vivere l’ebrezza di sentirsi intoccabile.  Insostituibile.  Così che putinianamente, dopo essere stato leader dell’Esecutivo, vuole riproporsi come Capo d’una Repubblica che amerebbe presidenziale. Sapendo di starsi a giocare tutto insegue fantasmi di spaccature fra la gente se punta a contrapporre alla protesta dei giovani aleviti dell’area di Okmeydanı il sunnismo del suo Islam politico.

Confessionalizzare lo scontro di una piazza che le analisi della scorsa estate mostravano estremamente variegata, può diventare una follìa tattica che trascinerebbe scampoli di guerriglia siriana in terra turca. Un errore da pugile suonato, non da campione del mondo politico islamico che aveva la presunzione d’incarnare. Essere in un’Europa immersa nei problemi di gestione economico-politica o in un Medio Oriente scosso da rivolte e conflitti è il bivio in cui la Turchia si dibatte da anni fra sogni, scelte proprie e  percorsi indotti. Seguirne strade dettate da un autoritarismo reazionario mutuato dal kemalismo militarista e fascista, che agli esordi dell’esperienza erdoğaniana perseguitavano lui e i suoi sodali, è un’insensata immedesimazione nel carnefice. In politica accade spesso che chi ha grandi progetti per la collettività finisca soffocato dalla presunzione di disegni divenuti megalomanie soggettive. Forse per Erdoğan inizia a suonare la campana del declino. E c’è chi ritiene che i milioni e milioni tenuti in casa preparassero fughe personali e non solo di capitali. 

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