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Curdi, s’infiamma il distretto di Diyarbakır

Intikam: vendetta, è la risposta con cui i kurdi della provincia di Diyarbakır sono sfilati in corteo per ricordare le due vittime di scontri e repressione incrociati a Lice contro l’esercito turco. Una tensione cresciuta nelle ultime settimane per il dissenso della popolazione locale all’edificazione dell’ennesima caserma in cui il governo stipa militari. Per protestare contro l’iniziativa centinaia di attivisti avevano creato posti di blocco lungo la strada a scorrimento veloce Diyarbakır-Bigol. Lì è intervenuta la truppa e c’è stata vera e propria battaglia, con pietre, molotov, lacrimogeni e anche con le armi. Nei giorni scorsi erano stati colpiti dei soldati, sabato sono giunte le pallottole su Ramazan Baran di 24 anni e sul cinquantenne Abdulbaki Akdemir. L’Unione delle comunità kurde (KCK) ha accusato i vertici di Ankara di istigare al conflitto e ha invitato la popolazione a tenere alta l’attenzione senza far recedere la mobilitazione contro la militarizzazione del territorio. E si teme un’escalation di violenze. Anche perché quello che si va creando in zone dove la tensione torna a crescere, come il villaggio di Kuşluca presso Ovacık nella provincia Tunceli, e in altre aree sono i famigerati kalekols, basi logistiche attrezzate per difesa e repressione.

Questi bunker corazzati sono stati approvati dal Parlamento con una legge nel dicembre 2012. Il governo previde di costruirne 149 con pareti di calcestruzzo larghe un metro, acciaio e vetri antiproiettile. E lo sta facendo. Lì i militari, che hanno a disposizione anche robot e i famigerati droni per osservazioni e raid, si sentono sicuri. In un’intervistata rilasciata a un noto quotidiano turco l’antropologa Nükhet Sirman, docente dell’Università Boğaziçi impegnata in studi sui comportamenti della comunità kurda e membro di Women for Peace, ha ricordato come queste istallazioni, giustificate nel piano di sicurezza nazionale contro attacchi dall’esterno, non aiutano certo la distensione  socio-politica interna. Come non aiuta il velo d’impunità che lo Stato vuole distendere sui crimini del recente passato delle sue Forze Armate (stragi di civili e loro deportazione). Afferma la studiosa: “Il processo di pace s’ottiene facendo tacere le armi, ma anche riparando i buchi dell’anima” e ancora “l’impunità dei responsabili è uno dei più grandi ostacoli alla pacificazione”. Da conoscitrice della popolazione kurda non crede al rapimento dei giovani da parte del Pkk, né al raggiro di ragazzi che sin dai 9-10 anni sviluppano una volontà e una conoscenza della vita che li matura in tenera età, evitando debolezze e superficialità. 

Parecchi fra loro devono abbandonare gli studi dopo la scuola primaria e hanno l’esistenza segnata da isolamento e oppressione “perché non dovrebbero scegliere autonomamente la guerriglia?” afferma con disincanto l’antropologa. “Eliminare povertà, discriminazione, umiliazioni aiuterebbe le persone a una maggiore collaborazione. Il clima d’oppressione fa dire a donne: finché i miei figli erano qui armati anch’io ero più sicura”. Intervenendo a commento della tensione crescente nei territori kurdi Cemil Bayık, co-presidente del KCK ha evidenziato come il governo di Ankara continui a prendere tempo su una tematica che ormai attende solo risposte concrete e attuazioni. Egualmente parlare di pace e proseguire l’occupazione militare tramite caserme o pianificando centralmente operazioni simili a quella delle dighe nel bacino del Tigri risulta altamente contraddittorio. Secondo alcuni osservatori il Pkk sta spingendo sull’acceleratore per sfruttare la scadenza delle presidenziali e strappare un accordo a sé più favorevole nei colloqui con Erdoğan. Nelle trattative ciascuno fa il suo gioco, ma se il confronto diventa squilibrato il tavolo è destinato a traballare.

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