Il nonno dei “Lupi grigi” Davlet Bahçeli non perde né pelo né vizio. Forte d’un elettorato accresciuto dal recente voto (sette milioni e mezzo di concittadini gli forniscono 80 deputati) lancia i suoi diktat nel giro degli incontri politici predisposti da Erdoğan per cercare di formare un governo. Il presidente turco, pur avendo parzialmente ridimensionato l’innata boria con cui nelle settimane di campagna elettorale ha marchiato una presenza pubblica nient’affatto neutrale, continua a richiamare valori patriottici che potrebbero allettare i nazionalisti, accanto a interessi collettivi e individuali. E comunque cerca un orizzonte generalizzato di salvezza affinché i quattro gruppi parlamentari predispongano anche solo un Esecutivo-ponte capace di superare lo stallo prodotto dall’urna. Finora veti incrociati oppure richieste difficili da esaudire stanno lasciando nel recinto delle ipotesi qualsivoglia coalizione. Mentre il conto alla rovescia riserva alle soluzioni poco più d’un mese, trascorso il quale si torna all’urna per la gioia di chi può ulteriormente rosicare voti all’Akp. Bahçeli è fra questi, lo spera e non lo nasconde. Dice: “La gente sta capendo che l’Akp non potrà più restare a lungo partito di potere e ci sceglie come alternativa“.
All’ambizione aggiunge gli anatemi. Per bruciare quella che sembrava poter essere una soluzione tampone: l’entrata al governo col partito islamico, rincara la dose sostenendo che mai i deputati nazionalisti potrebbero sedere accanto a uomini che tramite la Fondazione Türgev (in cui è presente Bilal, figlio dello stesso Erdoğan) raccoglievano denaro per se stessi e i loro affari. Il riferimento è a quegli ex ministri Akp: Çağlayan (economia), Güler (interno), Bağiş (Affari europei), Bayraktar (Sviluppo e pianificazione urbana) che dovettero dimettersi nel dicembre 2013 perché accusati di corruzione. Seppure un successivo pubblico ringraziamento del Parlamento al loro operato, voluto ovviamente dal partito di maggioranza, ha attenuato l’intento dei giudici nel proseguire l’istruttoria. Bahçeli chiederebbe un mea culpa dell’Akp che difficilmente verrà. Perciò le distanze si ampliano. Le parti sociali, sia il fronte industriale (con la potente Tüsiad, l’associazione degli industriali e degli uomini d’affari), sia vari sindacati (Civil Servants’ Trade Union, Confederation Turkish Real Trade Unions, Confederation Turkish Labor Unions) auspicano una formazione rapida della leadership nazionale per continuare a sostenere l’economia e lo sviluppo su cui, in un clima d’incertezza, può cadere la mannaia delle Borse.
Le prime avvisaglie si sono avute nelle ore immediatamente successive allo spoglio, quando si palesava la difficoltà di stabilire una guida certa. Gli auspici non bastano e devono fare i conti con la sfaccettatura di quelle Turchie che non dialogano, né intendono farlo. Un esempio è Bahçeli: non vuole neppure sentire pronunciare la parola kurdo. Cosa che confligge con l’enorme successo che questa componente e la sinistra d’opposizione hanno conseguito il 7 giugno col partito Democratico del popolo (Hdp). Anche loro possono contare su 80 parlamentari. All’Akp i nazionalisti chiederebbero un totale disconoscimento dei colloqui di pace condotti, pur fra alti e bassi, con Öcalan che per Bahçeli può continuare a marcire nel supercarcere nel Mar di Marmara, dov’è rinchiuso dal 1999. Alle insistenti domande dei cronisti sull’idea d’una coalizione, strana ma numericamente forte di 292 deputati (Chp-Mhp-Hdp), che potrebbe scacciare il partito islamico dal potere, l’amico dei “Lupi grigi” ha ripetuto come per nessuna ragione al mondo, neanche l’azzardo più esasperato, lo porterebbe a condividere una responsabilità istituzionale con coloro che ritiene terroristi. I suoi elettori non lo perdonerebbero, e soprattutto non glielo consentirebbero quelle milizie paramilitari che sono tuttora il Convitato di pietra della politica interna anatolica. Bahçeli sa cosa vuol dire.
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