Com’era evidente alla fine della giornata elettorale del 7 giugno scorso, sarà assai difficile formare un governo in Turchia dopo che gli islamisti e liberisti dell’Akp, egemoni per ben tredici anni, sono stati abbondantemente puniti dall’elettorato erdoganiano, parte del quale si è spostato verso i nazionalisti laici e di destra dell’Mhp, mentre per la prima volta le sinistre curde e turche riunite nell’Hdp hanno superato la soglia del 10% e sono entrati in parlamento.
Nei giorni scorsi l’Alto Consiglio Elettorale (Ysk) ha confermato l’esito delle elezioni: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) con il 40.8% dei voti porta in parlamento 258 deputati, seguito dal Partito repubblicano del popolo (nazionalisti di centrosinistra) con 132, dal Partito di azione nazionalista (Mhp, estrema destra) e dal Partito democratico dei popoli (Hdp, sinistra), ciascuno con 80 seggi.
Dopo la cerimonia di giuramento dei neo eletti parlamentari prevista per domani il presidente Recep Tayyip Erdogan assegnerà al leader dell’Akp Ahmet Davutoglu, capo della formazione che ha ottenuto il più alto numero di consensi, l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Se non ci riuscirà l’incarico passerà di volta in volta agli altri tre leader delle forze parlamentari. Ma il vero conto alla rovescia dei 45 giorni entro i quali sarà necessario mettere in piedi un eventuale nuovo governo inizierà dopo l’elezione del nuovo presidente della Camera e dei membri dell’Ufficio presidenziale, previsti entro i primi giorni di luglio. Se entro i 45 non si potesse formare un governo si dovrebbero indire elezioni anticipate. Per governare servono almeno 276 seggi. Subito dopo il voto i contatti tra i diversi partiti per formare una maggioranza si sono fatti febbrili, con l’Akp che cerca di convincere i nazionalisti – che in fondo hanno un programma molto simile a quello degli islamisti anche se lontani dalla concezione religiosa di Erdogan e Davutoglu – mentre teoricamente avrebbe i numeri per governare una assai improbabile alleanza tra i tre partiti dell’opposizione. Ma l’Mhp – gli ‘ex’ Lupi Grigi – guidato da Devlet Bahçeli ha di fatto posto il veto ad una qualsiasi collaborazione con i curdi e le sinistre. Teoricamente l’estrema destra è disponibile ad un accordo con l’Akp, ma Bahçeli ha posto alcune condizioni difficilmente accettabili da Erdogan, tra le quali la limitazione dei poteri del presidente – che invece mirava a vincere le elezioni proprio per avocare tutto il potere a sé dopo una riforma presidenziale della Costituzione – e l’avvio di quei processi per corruzione contro la cupola del partito di governo che invece gli islamisti hanno stroncato sul nascere. E, come se non bastasse, l’interruzione di ogni trattativa con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan.
La questione del rapporto con i curdi sembra uno dei maggiori ostacoli anche al raggiungimento di un accordo tra Mhp e Chp. Pur di estromettere dal potere i turbo-islamisti il leader del Chp, Kemal Kiliçdaroglu, ha addirittura offerto la poltrona di premier a Bahçeli che però avrebbe dovuto accettare quantomeno l’appoggio esterno dei deputati dell’Hdp, ipotesi che i nazionalisti di destra hanno respinto seccamente.
Resta la possibilità di una “grande coalizione”, cioè di un accordo tra Akp, Chp ed Mhp che garantirebbe una certa stabilità al paese ma limiterebbe i poteri e le aspirazioni da sultano di Erdogan e al tempo stesso potrebbe indispettire l’elettorato dei partiti di opposizione desiderosi di una rottura con l’asfissiante passato. A fornire un appiglio a repubblicani e nazionalisti, però, potrebbe pensarci Abdullah Gul, esponente di spicco del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che non fa mistero di mirare al posto di Erdogan. Gul si dipinge come l’alternativa moderata e tollerante all’attuale presidente, e se fosse lui a guidare il partito potrebbe smussare alcuni toni e rinunciare a qualche aspirazione di troppo permettendo a Chp ed Mhp di sporcarsi le mani in una alleanza comunque a termine.
E’ forse anche per questo che Erdogan sembra spingere per un ritorno rapido al voto, che stronchi i competitori interni all’Akp e al tempo stesso metta gli elettori davanti ad un referendum sulla stabilità. Di fronte alla prospettiva di un nuovo flop e di un nuovo periodo di instabilità e caos politico, alcuni ambienti di potere e imprenditoriali ma anche settori critici delle classi medie potrebbero turarsi il naso e scegliere l’Akp come ‘male minore’.
A quel punto il ‘Sultano’ potrebbe riprendersi una rivincita dopo una sconfitta del suo partito che però è anche e soprattutto personale. Nonostante le limitazioni che la Costituzione gli poneva, Erdogan è sceso in campagna con tutto il suo peso agitando il Corano davanti alle folle di sostenitori e utilizzando la discriminante religiosa come una clava contro i suoi nemici. Ha fatto fuori i suoi nemici nell’establishment e fuori – politici, magistrati, procuratori, giornalisti, poliziotti – a migliaia accusandoli di tramare contro il governo e di operare al servizio di potenze straniere e del sempre più odiato imam/imprenditore Fethullah Gulen, un tempo suo padrino e mentore. Ha fatto approvare dalla sua docile maggioranza un pacchetto di leggi liberticide che aumenta i suoi poteri, quelli della polizia e della magistratura a lui fedele, mettendo sotto controllo i giudici e internet e rafforzando il ruolo dei servizi segreti. Quelli, per capirci, presi con le mani nel sacco mentre scortavano convogli di camion carichi di armi diretti ai tagliagole dello Stato Islamico in Siria. Ma nonostante tutto le urne hanno inflitto a Erdogan una sonora sconfitta, dovuta anche ad altri due passi falsi del ‘sultano’. Dopo aver guidato un’epoca di relativa prosperità economica – basata largamente sulla speculazione, sulle grandi opere, sulla finanziarizzazione dell’economia e sull’ipersfruttamento di settori rurali provenienti dalle regioni orientali anatoliche, inurbati rapidamente e grati per la presunta emancipazione – il presidente ha dovuto subire i contraccolpi di una crisi strisciante. La straordinaria e improvvisa mobilitazione popolare dell’estate del 2013 è stata anche conseguenza della fine del boom economico, oltre che reazione all’accelerazione delle spinte islamizzatrici e autoritarie del regime di Ankara, e ad esserne protagonisti sono stati settori sociali fino a quel momento in buona parte lontani dalla politica.
Inoltre il sogno di Erdogan a far diventare la Turchia una grande potenza regionale, alla guida di un polo geopolitico ‘neo-ottomano’ che andasse dalle Repubbliche turcofone dell’ex Urss fino al Maghreb, si è risolto in un evidente fallimento: la sconfitta dei Fratelli Musulmani in Egitto e in Tunisia, il ridimensionamento di Hamas in Palestina, le difficoltà del governo di Tripoli in Libia, l’accordo con un Qatar ridimensionato dall’Arabia Saudita all’interno del ‘Polo Islamico’, e soprattutto il passo falso compiuto sostenendo i jihadisti in Siria rappresentano un bilancio più che amaro che ha indispettito non pochi turchi conservatori, molti dei quali hanno preferito spostarsi verso la versione classica del nazionalismo reazionario rappresentato dai Lupi Grigi. Che oggi, di fronte alle vittorie militari delle Unità di Protezione del Popolo in Siria e ai confini con la Turchia attaccano Erdogan sul suo stesso terreno, parlando alla pancia di quella “Turchia profonda” che oggi si sente più debole e più spaesata, mobilitata dal capro espiatorio del ‘nemico curdo’. Sul fronte opposto, l’Akp ha subito un tracollo senza precedenti nelle regioni curde e in quelle di frontiera con la Siria – da Antiochia a Gaziantiep, da Sanliurfa a Mardin – dove la popolazione ha abbandonato in massa il leader che ha sostenendo i jihadisti dello Stato Islamico.
Il voto del 7 giugno ha indubbiamente inflitto un sonoro ceffone a Erdogan ma ha anche complicato il rompicapo turco. Se il ‘Sultano’ finirà vittima del suo stesso gioco o saprà invece rimanere a galla magari in coabitazione con altri settori dell’establishment finora esclusi lo capiremo nelle prossime settimane.
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