Nulla di fatto, come previsto. Impossibilitato a formare un governo a parecchi mesi di distanza dal voto del 20 dicembre scorso, il Re di Spagna non ha potuto fare altro che sciogliere le Cortes e indire nuove elezioni per il prossimo 26 di giugno. Dopo il calo drastico dei due partiti su cui si è retta l’alternanza dalla fine del franchismo, i socialisti e i popolari, e l’emersione di due nuovi poli politici – Ciudadanos e Podemos – il parlamento uscito dal voto si è rivelato troppo frammentato per permettere la costituzione di un esecutivo. Esclusi i popolari, le altre tre principali forze politiche hanno provato con varie geometrie a siglare un patto che permettesse di cacciare Rajoy e la destra storica dal potere, ma non ci sono riusciti. I socialisti hanno trattato separatamente a destra con Ciudadanos e a sinistra con Podemos, dando comunque priorità ai primi e mettendo in forte difficoltà i secondi che, nonostante le disponibilità ad aprirsi a patti inediti, non potevano certo appoggiare un esecutivo di piena continuità con le politiche e le priorità economiche del passato.
E quindi gli elettori sono di nuovo chiamati alle urne tra meno di due mesi. Il problema è che secondo tutti i sondaggi le Cortes che ne usciranno non saranno molto più “stabili” rispetto a quelle appena sciolte e mai entrate in funzione. Le rilevazioni danno sia i popolari sia i socialisti in ulteriore calo rispetto al già storico crollo del 20D, a vantaggio anche stavolta di Ciudadanos e Podemos. I Popolari erano fin qui sostanzialmente soddisfatti dell’impasse dei loro avversari, sperando che i mesi guadagnati potessero permettere a Rajoy di presentarsi davanti agli elettori facendo dimenticare le politiche ferocemente antipopolari e autoritarie degli anni scorsi per vantare invece il successo degli ultimi tempi nella ripresa economica. Ma proprio nelle ultime settimane alcuni indicatori macroeconomici hanno cominciato di nuovo a tornare in negativo. Il governo di Madrid ha dovuto ammettere che anche quest’anno non potrà rispettare gli obiettivi di bilancio imposti da Bruxelles, dopo aver chiuso il 2015 con un deficit superiore al 5% del Pil contro il previsto 4,2.
Ma, allo stato, il pure tanto vituperato Partido Popular rimarrebbe comunque prima forza del paese, aggiudicandosi così un consistente pieno di seggi grazie ad una truffaldina legge elettorale che premia i partiti maggiori (o quelli più concentrati in un territorio).
Il problema, per i mercati, la troika e i sostenitori della governance, è che molto probabilmente il nuovo parlamento rimarrebbe spezzettato tra quattro grandi blocchi quasi equivalenti, rendendo di nuovo difficile la costituzione di una maggioranza politica; senza contare che i partiti nazionalisti e indipendentisti espressione della Catalogna, del Paese Basco, della Galizia e di altre comunità autonome potrebbero vendere caro il loro fondamentale apporto di seggi ad eventuali coalizioni statali troppo deboli per farcela da sole.
Per tentare di forzare gli equilibri attuali, sia dentro Podemos sia dentro Izquierda Unida è in atto un appassionato dibattito sulla necessità di unire le forze in vista delle nuove elezioni, andando ad una coalizione unitaria anche con le formazioni regionali costruite attorno ai due soggetti e con l’apporto di forze politiche locali in Catalogna, Valencia e Galizia. Anche se la creatura politica di Pablo Iglesias ha sottratto a Izquierda Unida la stragrande maggioranza del suo elettorato – scenario riconfermato anche il 26 giugno, stando ai sondaggi – la costituzione di liste comuni concederebbe alle forze coalizzate un numero assai più consistente di seggi rispetto a quelli che i singoli partiti potrebbero raccogliere andando in solitaria. Un escamotage tecnico per approfittare delle storture della legge elettorale e dell’effetto che l’unità potrebbe avere su una certa fetta di elettori indecisi, dicono alcuni dei sostenitori della coalizione, l’inizio di un necessario e irrimandabile progetto politico unitario affermano altri.
Ma non mancano i dubbi e le perplessità, sia dentro Podemos sia all’interno di Izquierda Unida. Del resto il movimento politico populista nato dopo la manifestazione della crisi economica e il commissariamento di Madrid da parte della Troika europea, ha sempre rifuggito una categorizzazione “a sinistra” vissuta come superata e comunque controproducente rispetto alla volontà di attirare consensi trasversali. L’alleanza, anche solo elettorale, con Izquierda Unida – all’interno della quale la componente comunista è sempre più debole e marginale – potrebbe spaventare alcune fette di elettorato moderato che finora si sono identificate in Pablo Iglesias. Non a caso in questi giorni i partiti di centro e di destra, in particolare i socialisti di Pedro Sanchez, non hanno perso l’occasione per accusare Podemos di volersi alleare con i ‘rossi’ di Alberto Garzòn “rivelando così la propria vera anima”.
Anche dentro la coalizione di sinistra, per quanto ridotta ai minimi termini, non mancano i ‘no’ ad una coalizione con Podemos che viene considerata, non a torto, l’inizio della fine della presenza autonoma delle sinistre radicali nelle istituzioni.
Insomma un bel dilemma. Comunque vada, per Podemos la strada sembra irta di ostacoli. Se dopo il voto ci fossero infatti i numeri per governare insieme ai socialisti e agli indipendentisti catalani, ovviando così alla ingombrante presenza della nuova destra guidata da Albert Rivera (Ciudadanos), la formazione populista difficilmente potrebbe ottenere da Sanchez la guida dell’esecutivo, e ottenere l’inserimento nel programma di governo di seri elementi di discontinuità con le politiche portate avanti dai precedenti governi. Sul tema della concessione alle nazionalità senza stato di una maggiore autonomia ed in particolare del diritto di autodecisione ai catalani, che Iglesias e i suoi affermano di considerare un punto irrinunciabile, il no pieno e irrevocabile dei socialisti è scontato. Il che renderebbe Podemos una ininfluente stampella di un governo centralista, inaccettabile non solo per gli alleati catalani della formazione ma anche per molti dei dirigenti e dei militanti della sezione locale del movimento.
Però anche un nuovo giro di trattative infruttuose dopo il voto ed eventualmente la permanenza all’opposizione di un governo Psoe-Ciudadanos e affini potrebbe logorare non poco un movimento all’interno del quale le contraddizioni macerano e crescono con il tempo. Rifuggendo – con efficacia – la distinzione ‘destra/sinistra’ Podemos ha puntato a rappresentare nelle istituzioni alcune delle rivendicazioni popolari emerse durante la mobilitazione dei movimenti sociali sorti nello Stato Spagnolo quando la crisi mordeva e milioni di cittadini fino a quel momento distanti dalla politica hanno scoperto, sulla loro pelle, la necessità di mobilitarsi e partecipare. Puntando su onestà, pulizia, cambiamento e affermazione del ‘nuovo’ Podemos è cresciuta trasversalmente: più le piazze si svuotavano più i consigli comunali, regionali e le assemblee statali si riempivano di rappresentanti della nuova formazione. Ma l’establishment ha saputo giocare le sue carte con prontezza e intelligenza, affiancando ad un ‘nuovo’ inviso, Podemos, un ‘nuovo’ pilotato e rassicurante, espressione degli stessi interessi finora rappresentati dai due partiti dell’alternanza. E così in poco tempo Ciudadanos, da piccola forza regionale catalana emersa per bilanciare l’auge dei movimenti indipendentisti di sinistra, è stato trasformato in una forza politica statale in grado di recuperare a destra milioni di voti in fuga dal Partito Popolare e dal Partito Socialista, improvvisamente invisi anche agli elettori conservatori investiti da disoccupazione, tagli ai salari e alle pensioni e sfratti.
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