Il dopo-guerra della lotta al terrorismo è ancora più complicato della guerra. È un conflitto dove in Siria coabitano, tra le tensioni, ambiziosi attori regionali e superpotenze, è un altro capitolo del confronto tra sunniti e sciiti e dello scontro all’interno dello stesso campo sunnita dove gli interessi dei turchi, per esempio, non coincidono più con quelli degli arabi. Erdogan, leader di un Paese Nato, è ormai passato armi e bagagli nel campo di Putin e ha deciso di mantenere in sella Bashar Assad.
Ma ora che sono cadute le roccaforti di Al Baghdadi, quella all’Isis è diventata una guerra ancora più sporca, intorbidata dalla spartizione delle aree di influenza.
Come la caduta dei talebani in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di Al Qaeda, il sospetto che la sconfitta territoriale del Califfato non sarà la fine dell’Isis è sempre più forte. E diventa più consistente, dopo il reportage della Bbc che documenta l’accordo dei curdi siriani per l’uscita indenne da Raqqa di 4mila jihadisti armati, foreign fighters compresi, con l’avallo americano e britannico. Un’intesa “segreta” ma già denunciata dai russi ai quali la coalizione a guida Usa avrebbe impedito di bombardare le colonne jihadiste.
La lotta al terrorismo è una realtà a geometria variabile. Viene condotta dagli alleati degli americani e da Washington a seconda degli interessi tattici e geopolitici che guidato i rapporti tra le potenze occidentali e i loro partner arabi.
Dopo averne giustificato l’apparato ideologico, ispirato al wahabismo saudita, e sostenuto l’obiettivo anti-sciita, le potenze musulmane sunnite si sono nominalmente dissociate dal jihadismo ma erano venute a patti con il Califfato con l’obiettivo di far fuori Assad ed egemonizzare la regione. Non troppo diversamente da come negli anni Ottanta finanziarono i mujaheddin per far fuori il regime filosovietico di Kabul e l’Armata Rossa che aveva invaso il Paese. I mujaheddin allora erano gli “eroi” dell’Occidente dopo una generazione diventarono i “barbari” degli attentati in Europa.
È il caso di ricordare i rapporti ambigui della Turchia con i jihadisti che viaggiavano indisturbati sull’”autostrada della guerra santa”: la complicità evidente di Ankara nell’assedio dei curdi di Kobane, la trattativa per la liberazione dei diplomatici turchi a Mosul nel 2014, i flussi del contrabbando di petrolio, passati insieme ai carichi di armi e di uomini. Poi naturalmente i jihadisti vanno anche fuori controllo e per mettere Ankara sotto pressione hanno cominciato la stagione degli attentati.
La stessa crisi con il Qatar aperta dall’Arabia Saudita, per l’appoggio di Doha ai Fratelli Musulmani, è indica che le monarchie del Golfo hanno pareri diversi sul futuro della Siria e in generale del Medio Oriente: alcuni gruppi di jihadisti, se non direttamente l’Isis, sono stati sostenuti dalle monarchie arabe con l’obiettivo di non solo di eliminare Assad ma di controbattere l’influenza dell’Iran, che insieme alla Russia e agli Hezbollah libanesi è uno di vincitori della guerra di Siria. Quando i jihadisti sono stati espulsi dal Libano, Riad ha giocato la carta della crisi politica a Beirut con le dimissioni del premier Saad Hariri.
È anche vero che tutti, non solo le potenze sunnite, sono venuti a patti, magari tattici, con l’Isis. Hanno patteggiato con i jihadisti, oltre ai curdi siriani, alla perenne ricerca di alleati per contenere la Turchia, anche i curdi iracheni di Massud Barzani nell’assedio di alcune città nella zona di influenza dei peshmerga. Il motivo del compromesso non è stato ovviamente di vicinanza ideologica ma quello assai più opportunistico di risparmiare perdite in battaglie urbane strada per strada. La tattica di lasciare agli assediati alcune vie di fuga fu sperimentata dall’esercito siriano e Hezbollah nelle battaglie sul Qalamoum, la catena montuosa tra Siria e Libano, in una fase della guerra dove era decisivo l’afflusso dei foreign fighter.
Anche il regime di Damasco, le milizie sciite e lo stesso esercito libanese hanno fatto accordi con i jihadisti. Questo è avvenuto nell’area dei pozzi petroliferi di Deir ez Zhor ma anche alle frontiere del Libano dove sciiti ed esercito di Beirut hanno consentito ai jihadisti Isis di Arsal di lasciare il confine verso un’area di “de-escalation” come è oggi Idlib dove sono concentrati 40mila combattenti con le famiglie. Una sorta di esercito di riserva forse da utilizzare o disperdere in Yemen, Libia, Afghanistan.
Grazie a un accordo con Mosca, la Turchia è penetrata nel Nord della Siria, per combattere più che i jihadisti le milizie curde e interrompere la continuità territoriale del Rojava. Dove sono finiti i combattenti islamici? Non ci sono notizie di battaglie sanguinose, più probabile che siano da qualche parte alla frontiera, magari per essere usati in futuro contro i curdi siriani ritenuti da Ankara dei terroristi, affiliati al Pkk di Abdullah Ocalan.
Nella guerra sporca il Califfato finirà forse per diventare una sorta di “cloud” del terrore, una nuvola nera che galleggerà ancora sul Medio Oriente quando tornerà a essere utile o necessario.
da IlSole24Ore.
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