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La situazione in Donbass e la Carovana antifascista

Mentre Vladimir Putin inaugura la sezione stradale del ponte sullo stretto di Kerč, definito “opera illegale” dai golpisti ucraini e dalla loro claque liberale russa, non accenna a evolvere al meglio la situazione in Donbass, che vede il quotidiano stillicidio e martellamento di bombe di mortaio e d’artiglieria sui villaggi di campagna e sui quartieri periferici delle maggiori città delle Repubbliche popolari.

Bombe di mortaio da 120 mm e colpi sparati da mezzi blindati e lanciagranate automatici hanno colpito ieri nella LNR le propaggini di Kalinovo (nordovest di Stakhanov) e Prišib, una trentina di km a nordovest di Lugansk.
Negli ultimi giorni, le forze ucraine avevano tentato di passare all’offensiva nell’area di Gorlovka, nella DNR, colpendo con rinnovata intensità i rioni di Širokaja Balka e Nikitovskij (in quest’ultimo, una scuola è stata bersagliata anche ieri da colpi di mortaio da 120 mm), ma i contrattacchi delle milizie popolari hanno costretto le truppe di Kiev ad 
abbandonare le alture chiave a nordovest di Gorlovka, in particolare il villaggio di Čigari, precedentemente occupato nella terra di nessuno.

Il bilancio, provvisorio, è stato di due miliziani morti, nove soldati ucraini morti e cinque feriti. L’agenzia dan-news.info scriveva ieri che l’offensiva su Gorlovka era coincisa con l’arrivo in Ucraina del rappresentante speciale USA Kurt Volker, che, però, Mosca non considera più un interlocutore credibile, tanto da mettere in forse il proseguimento dei colloqui tra lui e il rappresentante (non più per molto) del Cremlino Vladislav Surkov, sullo sfondo dell’ormai lungo stallo del “formato normanno” Berlino-Mosca-Parigi-Kiev.

Novorosinform scrive che i danni più gravi del martellamento ucraino si registrano in queste ore nell’area del villaggio della miniera Glubokaja, con gli abitanti costretti a riparare nei rifugi o sfollare nei rioni più sicuri di Gorlovka, pur se anche quartieri periferici come Zajtsevo e Žovanka rimangono alla portata delle artiglierie ucraine e la stessa Gorlovka è praticamente assediata. D’altro canto, sembra che la manovra attorno a Čigari, potrebbe essere nient’altro che un diversivo per mascherare una prossima offensiva su Gorlovka, Donetsk o Dokučaevsk – tutte allineate sulla stessa traiettoria nordest-sudovest – o, più a sud, in direzione di Novoazovsk.

E’ in questo quadro, che nei giorni scorsi la leadership della DNR ha sollecitato i cosiddetti osservatori OSCE a “prestare maggior attenzione” alle violazioni ucraine del cessate il fuoco lungo la linea di demarcazione; i rappresentanti della DNR al Centro congiunto di controllo e coordinamento hanno informato l’OSCE su 33 violazioni ucraine nella sola giornata del 13 maggio, con il ferimento di due civili a Gorlovka. Le forze di Kiev avevano riversato infatti una pioggia di bombe di mortaio e proiettili d’artiglieria nell’area del villaggio di Šakhta Gagarina, per alleggerire la situazione su Čigari, da cui tentavano di evacuare i reparti sbaragliati dalle milizie.

Nonostante le voci su una presunta stabilizzazione della situazione e una relativa calma, le forze ucraine continuano dunque a violare quotidianamente il cessate il fuoco e ignorare le altre misure militari e politiche previste dagli accordi di Minsk del febbraio 2015. Così che, nota Denis Gaevskij su Svobodnaja Pressa, di fronte a una popolazione ucraina che i sondaggi indicano come sempre più stanca di un conflitto quadriennale, il golpista numero uno, Petro Porošenko, comincia a dar segni di nervosismo, consapevole che le presidenziali del 2019

potrebbero dare la vittoria a quel candidato che avanzi concrete proposte di uscita dal vicolo cieco in cui la junta ha cacciato il paese; tant’è che tra i circoli presidenziali non si escludono manovre per il rinvio delle elezioni al 2020.

Quanto la popolazione ucraina, sottoposta a quattro anni di martellamento ideologico neonazista e oltre venti anni di indottrinamento “indipendentista”, per quanto stanca della guerra, sia d’altra parte veramente propensa a riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle Repubbliche popolari del Donbass, è questione quantomeno controversa.

I racconti di quanti, in questi ultimi anni, sono stati costretti a emigrare in Russia (come profughi permanenti o anche solo come lavoratori temporanei) fuggendo dal Donbass attaccato da Kiev e anche delle persone con cui è stato possibile intrattenersi nel corso della Carovana antifascista organizzata dalla Banda Bassotti la settimana scorsa nella LNR e nella DNR, parlano di una propaganda nazionalista che ha fatto breccia in larga parte della popolazione ucraina, portando a scontri aperti all’interno di stessi nuclei familiari, ad amicizie troncate definitivamente, tra chi vive da una parte e dall’altra del fronte, a rotture irrevocabili anche tra parenti stretti.

E’ questo il frutto del martellamento psicologico golpista, accompagnato a un’ideologia dell’odio che è parte integrante del dente di lupo sbandierato nelle strade ucraine e che è stata pubblicamente sintetizzata, appena

pochi giorni fa, dal console ucraino ad Amburgo, Vasilij Maruščinets, che su feisbuc ha esortato a uccidere ebrei, “sionisti”, “moskali” (dispregiativo ucraino per indicare i russi), ungheresi e polacchi, da cui liberare le “terre ucraine”, inserire la svastica sullo stemma nazionale e definire ariani gli ucraini. Sono questi, i caporioni nazisti ucraini sulla strada dell’autodeterminazione delle genti di Gorlovka, Makeevka, Alčevsk, Mikhajlovka, Jasinovataja, Avdeevka, Debaltsevo, Ilovajsk, Dokučaevsk, Volnovakha, Stakhanov, Stanitsa Luganskaja… delle popolazioni di tutti quei luoghi attraversati dalla Carovana antifascista o di cui si è semplicemente intravista l’indicazione stradale.

I compagni italiani, russi, catalani, tedeschi, messicani, irlandesi, portoghesi salutati a Makeevka dai musici di “Aurora mineraria” sul resede del Palazzo della cultura della miniera “Butovskaja” si sono inchinati di fronte alle tombe dei civili uccisi dai proiettili ucraini nella grande area circostante l’aeroporto di Donetsk, nel rione Kujbyševskij e nel villaggio Vesëlyj, assieme ai quartieri Petrovskij e Kievskij della città tra i più esposti ai bombardamenti ucraini. Ecco, in lontananza, ciò che resta della torre di controllo dell’aeroporto; ecco le lapidi infrante del cimitero attiguo al rione Kievskij. Ecco le donne di Makeevka che si radunano attorno ai compagni per denunciare il regime di Kiev che ancora ogni giorno, dicono in lacrime, appena scurisce, rinnova i tiri d’artiglieria.

Ecco l’indicazione per Dokučaevsk, in cui ancora lo scorso 28 aprile due uomini sono rimasti uccisi e una donna ferita dai proiettili ucraini. Ma ecco anche le vetture bianche dell’OSCE – pochissime, per la verità, quelle in movimento; mentre numerose sono quelle immobili nel recinto della ricca sede dell’organizzazione – che sfrecciano non si sa per dove. Ecco Mikhajlovka, sulla tragica strada che unisce Alčevsk a Lugansk e in cui nel maggio di tre anni fa fu assassinato Aleksej Mozgovoj, il comandante comunista della brigata “Prizrak”; ecco il cippo sul luogo dell’attentato ed ecco, poi, non lontano, il piccolo cimitero in cui sono sepolti i troppi miliziani della “Prizrak” morti sotto il piombo ucraino o, come nel caso di Mozgovoj, per mano tuttora ignota, almeno a noi.

Eccola, Stakhanov, di cui troppe volte si sono lette le cronache dei bombardamenti, nel 2015, nel 2016 e, a più riprese, nel 2017; eccolo il sindaco, Sergej Ževlakov, dall’aria finalmente distesa, di cui si era visto il volto contratto, ancora nel dicembre scorso, mentre raccontava in TV dell’ultimo bombardamento ucraino sui quartieri periferici della città, che aveva semidistrutto decine di edifici e lasciato migliaia di persone senza energia elettrica e acqua potabile. Ecco l’indicazione per Volnovakha, entrata nella storia del conflitto per la strage di dodici civili causata da una mina a tempo ucraina, fatta brillare al passaggio di un autobus. Era accaduto poco prima dell’attentato alla sede del Charlie Hebdo a Parigi e il golpista Porošenko, ipocritamente e vigliaccamente, aveva addossato alle milizie la responsabilità del massacro di Volnovakha. A Parigi, dopo la famosa marcia a braccetto dei propri tutori occidentali, aveva beffardamente mostrato un pezzo di lamiera, presentandolo come un “frammento dell’autobus distrutto” e poi, tornato a casa, aveva organizzato una veglia con tanto di cartelli “Je suis Volnovakha”, accostando cinicamente le milizie ai terroristi francesi. Ecco Ilovajsk, Debaltsevo, che rammentano le vittorie delle milizie e le pesanti sconfitte di quello che Kiev si ostina a reclamizzare come “il più forte esercito d’Europa”.

Eccolo il Donbass ed ecco la sua gente che, dopo quattro anni di guerra e di bombardamenti terroristici sulle aree civili che, secondo Kiev, avevano lo scopo di spezzare il morale della popolazione e costringere le milizie alla resa, non si stanca di maledire i nuovi nazisti e di aver fiducia nella vittoria. Lo dicono i volti delle migliaia di persone che il 9 maggio, nell’anniversario della vittoria sul nazismo, sfilano nella marcia del Reggimento immortale, gridando contro il fascismo di ieri e di oggi. Lo dicono le parole di quel volontario russo, intervistato mesi fa da una rete moscovita insieme a miliziani tedeschi, francesi, colombiani, che alla domanda su quali motivazioni lo avessero spinto a lasciare il lavoro di controfigura cinematografica e unirsi ai combattenti del Donbass, aveva risposto: “Motivazioni?! Che razza di domanda! Il fascismo non è forse un motivo sufficiente?”.

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