Nelle austere sale del palazzo del Tribunale Supremo di Madrid, è cominciato il processo contro i liders catalani accusati di sedizione e ribellione per aver organizzato il referendum dell’ottobre del 2017, il procedimento penale che rappresenta la punta dell’iceberg repressivo spagnolo: oltre a nove ex membri del governo della Generalitat, alla ex presidente del Parlamento catalano e a due attivisti di Òmnium Cultural e dell’Assemblea Nacional Catalana, la giustizia spagnola sta infatti indagando decine di sindaci e di militanti indipendentisti.
Il processo contro i dirigenti più in vista del movimento si annuncia esemplare: il nazionalismo spagnolo vuole affermare una volta per tutte che il lascito franchista dell’unità dello stato non può essere messo in discussione, né si può riconoscere il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che questa domanda di trasformazione, sorta dalla società catalana, sia il risultato di un lungo processo democratico che, pur con molti limiti, ha portato al consolidamento di una maggioranza indipendentista in Catalunya, è del tutto indifferente agli amministratori dell’eredità franchista. Il Partido Popular, il PSOE e Ciudadanos, ai quali si è accodato Vox, il nuovo partito della destra radicale, sono strettamente uniti nella conservazione degli equilibri esistenti, all’ombra del grande capitale sia spagnolo che catalano e dell’UE. Senza questo sostegno sarebbe stato indubbiamente più difficile sciogliere il Parlamento di Barcelona dopo il referendum e mantenere in carcere preventivo per più di un anno gli imputati che in questi giorni cominciano a dichiarare.
Nel corso della udienza di mercoledi scorso Oriol Junqueras, l’ex vicepresidente del governo della Generalitat e presidente di Esquerra Republicana de Catalunya, ha immediatamente affermato di essere un prigioniero politico, in carcere a causa delle proprie idee e si è rifiutato di rispondere alle domande del pubblico ministero e dell’avvocato di parte civile. Arroccato a difesa della Spagna una, grande y libre, Vox si è infatti costituito parte civile, nell’intento evidente di proseguire la campagna elettorale che, dopo l’irruzione nel parlamento andaluso, dovrebbe consacrarlo anche a Madrid. Rispondendo al suo avvocato, Junqueras ha affermato che il lavoro politico e pacifico per l’indipendenza di Catalunya, così come l’organizzazione di un referendum, non costituiscono reati e ha rivendicato il diritto all’autodeterminazione dei popoli, sostenendo anche che il Tribunale non fermerà il processo verso la Repubblica catalana e l’indipendenza. Il Giudice l’ha lasciato parlare a lungo, cercando cosí di salvare almeno le forme di un processo la cui sentenza sembra già ampiamente scritta. La condanna degli imputati è infatti data per scontata da praticamente tutti gli osservatori. E Amnesty International e International Trial Watch non sono state autorizzate dal Tribunale Supremo a presenziare al processo, mentre due deputate della Linke, pur sapendo di non essere autorizzate, si sono presentate invano alle porte del tribunale all’apertura della prima udienza.
Il piatto forte dell’accusa è tutto politico: davanti al processo di organizzazione popolare e di democrazia diretta culminato nel referendum sovversivo del primo ottobre, si deve riaffermare la supremazia assoluta della legge, a tutela degli equilibri del cosiddetto regime del ’78. Denunciandone già dalla prima sessione il carattere persecutorio, Junqueras ha cercato di fare un uso politico del processo, approfittando della tribuna per affermare che “votare non è un delitto” e che la violenza è ravvisabile solo nell’intervento che la polizia e la Guardia Civil dispiegarono nel corso del primo ottobre. Il tentativo del presidente di ERC è invertire i ruoli e mettere lo stato spagnolo sul banco degli imputati. Una linea defensiva che alcuni degli accusati potrebbero accentuare ulteriormente se, come afferma Benet Salellas, l’avvocato di Jordi Cuixart, “la nostra idea di fondo è far affiorare la natura politica del processo e cercare che non si sviluppi nei termini costruiti dallo stato, cioè come lezione, punizione e vendetta contro l’indipendentismo”. Nella convinzione, espressa dall’avvocato ed ex deputato della CUP, che “l’unico modo di uscire vittoriosi dal giudizio è proporre uno scontro politico con il tribunale”.
Per dimostrare la violenza necessaria a ravvisare la sedizione e la ribellione, l’accusa si basa su un rapporto della Guardia Civil relativo alle perquisizioni e agli arresti del 20 settembre 2017, con particolare riguardo ai fatti accaduti davanti alla sede della Consiglieria di Economia a Barcelona, quando migliaia di persone resero assai difficile l’operazione della polizia. Le proteste furono ferme ma pacifiche e proprio i dirigenti di Òmnium Cultural e dell’ANC sciolsero le manifestazioni, senza peraltro evitare critiche e alcuni tafferugli nel corso della notte. Su quella giornata merita soffermarsi. La Guardia Civil lasciò all’interno di due auto parcheggiate davanti alla Consiglieria diverse armi, visibili e incustodite. Contemporaneamente cercò di entrare senza successo nella sede nazionale della CUP, sottoposta a un assedio di oltre sei ore e difesa fermamente da centinaia di militanti e simpatizzanti. L’intento della Guardia Civil era evidentemente quello di innescare lo scontro per avviare la repressione nelle piazze. Ma per dimostrare l’attitudine violenta degli indipendentisti, al publico ministero è bastato il grido No passaran!, riportato nel rapporto della Guardia Civil.
La scarsità delle prove atte a dimostrare il tentativo di ribellione è solo una delle contraddizioni della causa: mentre si processano i “ministri” indipendentisti, l’ex presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, può muoversi come un libero cittadino per tutta Europa, dopo che la giustizia belga e quella tedesca l’hanno scagionato dalle accuse mossegli dai giudici spagnoli. E dopo che la stessa Spagna si è rassegnata a ritirare l’euro-ordine di cattura che lo riguardava. È interessante notare come tra il sistema giudiziario e quello politico si sia optato per una divisione del lavoro che intenta salvare il formalismo democratico dell’unione: mentre i tribunali europei sembrano finora più imparziali degli spagnoli, le autorità politiche sono schierate decisamente con Madrid. Ne è una conferma il recente divieto di Tajani alla conferenza che Puigdemont e Torra (l’attuale presidente della Generalitat) avrebbero dovuto tenere al Parlamento Europeo.
Del resto la giustizia europea si staglia già all’orizzonte: data per scontata la condanna, i liders catalani si appelleranno con ogni probabilità al Tribunale di Strasburgo, dove negli scorsi decenni lo stato spagnolo ha già perso alcune battaglie significative. Tra queste la condanna per non aver indagato e spiegato cosa realmente avvenne nei casi delle torture denunciate dagli indipendentisti catalani arrestati nel 1992 su mandato di Garzón (lo stesso dedito alla repressione della sinistra abertzale). In quel caso la condanna arrivò con 12 anni di ritardo e c’è chi pensa che la vicenda processuale di oggi potrebbe seguire lo stesso copione. Una condanna che arrivi tra una decina d’anni sembra infatti perfettamente digeribile dallo stato spagnolo, che disporrebbe di tutte le armi e del tempo necessari a reprimere il movimento.
Nel frattempo i settori più avanzati dell’indipendentismo, quali la CUP, i Comitès de Defensa de la República, alcuni sindacati di base, parte dell’elettorato di ERC, sono impegnati a mantenere la mobilitazione nelle piazze, coscienti che lo scontro in corso non si esaurisce e soprattutto non si vince, nelle aule del Tribunale Supremo. Numerose manifestazioni e proteste si sono già verificate nei giorni precedenti l’inizio del processo, mentre si annuncia già lo sciopero generale di otto ore per il 21 febbraio, convocato dalla Intersindical-CSC con la parola d’ordine “senza diritti non esiste libertà”, uno slogan che intende coniugare diritti dei lavoratori e liberazione nazionale, nel solco della tradizione della sinistra independentista catalana. A sette anni dalla riforma del lavoro approvata dal PP (che il PSOE non ha voluto modificare) e che ha aggravato la disuguaglianza e la precarietà dei lavoratori in tutto lo stato, rilanciare la lotta a favore delle classi popolari sembra quanto mai necessario e urgente. Contemporaneamente si chiede anche il recupero delle leggi in materia sociale approvate negli scorsi anni dal Parlamento catalano e annullate dal Tribunale Costituzionale spagnolo. La mobilitazione nelle piazze sembra riaccendersi, come dimostra anche la grande manifestazione di sabato a Barcelona, dove il movimento indipendentista ha riempito quasi cinque chilometri della Gran Via con un corteo di circa mezzo milione di persone (200.000 secondo la guardia urbana) sfilate dietro a uno striscione unitario che recitava “l’autodeterminazione non è un delitto”.
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Daniele
I tribunali spagnoli sono identici ai tribunali speciali del fascismo italiano, e ugualmente fascisti.