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Giovani al Sud del Mediterraneo: sociologia della rivoluzione algerina

Più numerosi che l’8 marzo, questo venerdì milioni di algerini hanno manifestato in tutto il Paese.

Una mobilitazione storica, inedita dalla fine della guerra di liberazione nazionale, sta scuotendo il Paese. E non si è affievolita neanche dopo la “vittoria parziale”, con la rinuncia al quinto mandato da parte dell’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika – ottuagenario e gravemente malato – , fattore scatenante della protesta iniziata il 22 febbraio.

A.B. ha comunque annullato le elezioni e scelto un governo alla cui testa ci sono navigati uomini del proprio entourage, che rimarrà in carica – nonostante non sia previsto in alcun modo dall’attuale costituzione – fino all’elezione di un nuovo presidente.

Come recita uno slogan algerino rivolto a Bouteflika: “tu prolunghi il mandato, noi prolunghiamo la lotta”.

L’attuale establishment non intende cedere la gestione del processo di transizione – comunque dalle modalità e dai tempi incerti – dall’attuale sistema di governo, che ha avuto dal 1999 l’attuale presidente in carica come interfaccia pubblica e uomo in grado di bilanciare la totalità degli interessi concorrenti delle varie élites (ma sostanzialmente fino ad ora non contrapposti), verso un’altra configurazione politica che scaturirà da una nuova Costituzione votata con un referendum.

È chiaro come alcuni fatti rilevanti abbiano messo sotto stress test l’attuale configurazione dei poteri e la sua capacità di governance: il calo del prezzo del petrolio, la partnership sempre più stretta con la Cina, le pressioni imperialistiche internazionali (dall’Unione Europea agli USA) per alcuni aspetti che rendono il paese strategico per i propri appetiti energetici e geopolitici, il mancato sbocco esistenziale per una gioventù sempre più urbanizzata, istruita e “connessa” che non trova una occupazione adeguata e non è rappresentata in alcun modo dall’attuale classe politica dirigente.

Un cartello, apparso nella manifestazione domenicale di sostegno al popolo algerino a Parigi – “sì all’ecologia, non al riciclo del sistema” – , traduce bene il sentimento della protesta.

Per l’atto IV, dal venerdì 22 febbraio, una marea umana impossibile da contare ha manifestato ad Algeri, Orano, Costantine, Bejaïa, Tizi-Ouzou, Mostaganem, Annaba, Batna, Bouira, Tlemcen, Saida, come nelle città più piccole.

Un tratto comune delle mobilitazioni è la loro indole pacifica, il carattere conviviale e la grande capacità trovare modalità ironiche per criticare il sistema, la “mafia”, “i 40 ladroni”, “i morti viventi”, “il museo degli orrori”, secondo le varie espressioni popolari.

Un aspetto importante è l’identificazione del proprio nemico come un giano bifronte che ha il volto dell’anziano presidente algerino così come del giovane presidente francese: “Macron vattene, Abdelaziz vattene!” è una delle varianti sul tema che meglio sintetizzano la volontà di emanciparsi dall’attuale assetto di potere interno e dalle ingerenze esterne rappresentate dal neo-colonialismo francese – mai uscito di scena – che si è felicitato per la “transizione” proposta da Bouteflika.

In una lettera pubblicata dal quotidiano Al Watan, l’ottantenne icona della Lotta di Liberazione Nazionale Djamila Bouhired sintetizza lo stato d’animo del popolo algerino che vede nel sostegno del presidente francese “un colpo di stato programmato del suo omologo algerino […] un’aggressione contro il popolo algerino, contro le sue aspirazioni alla libertà e alla dignità”, oltre a un “ultimo segno rivelatore dei suoi legami perversi di dominazione neocoloniale”.

Dalle pagine dei giornali, avvocati e giuristi hanno criticato questa “transizione” che ritengono incostituzionale. Tra questi Fatiha Benabou – specialista in diritto costituzionale intervistata da TSA – è stata molto chiara: “non è né il presidente della Repubblica né alcuno che decide dello svolgersi delle elezioni presidenziali, è la Costituzione. E la costituzione è la volontà del popolo. L’elezione è un processo democratico che non può essere travalicato”.

Rigettata dalla strada, così come dall’opposizione politica, la proposta per uscire dall’impasse politico elaborata “sistema” ha un percorso tutto in salita, considerato che rappresenta agli occhi dei più una profonda espropriazione della sovranità popolare che, se finora era passata in secondo piano dalla fine del decennio nero degli anni Novanta, adesso emerge con forza, essendosi ormai consumato un punto di rottura inedito soprattutto con la componente giovanile: più della metà della popolazione ha meno di trent’anni e un milione e settecento mila sono studenti.

Sarebbe un errore non cogliere il carattere inter-generazionale delle proteste (anche nella componente algerina all’estero), ma è necessario comprendere la spinta principale che viene dalle giovani generazioni.

Mohamed Mebtoul, studioso algerino che ha condotto importanti ricerche su questa componente della società, mette in evidenza il carattere fortemente “patriottico” della cultura politica espressa, una “inversione cognitiva” rispetto all’esigenza di lasciare il proprio paese, come era accaduto con la visita di Chirac nel 2001 accolto dagli slogan dei giovani (“dacci i visti, dacci i visti, per potersi recare in Francia) e l’attuale affermazione della propria legittimità sociale: “oggi vogliamo vivere e esistere nella società, senza essere rifiutati come ‘buoni a niente’”, sembrano voler dire i giovani.

Lo studioso, nella parte terminale dell’intervista apparsa su Mediapart il 12 marzo, afferma:

i giovani hanno dimostrato che rappresentano ormai una attore sociale inaggirabile all’interno della trasformazione politica. Sembra importante che il dibattito pubblico e la discussione possano avvenire serenamente negli spazi pubblici per proporre delle ipotesi di cambiamento nello spirito solidale e unitario che ha caratterizzato le marce di venerdì”.

In un’altra intervista apparsa su “Mediapart”, la studiosa Karima Lazali, autrice di una ricerca sui traumi psichici della colonizzazione, traccia un quadro dei legami di continuità e di rottura tra il periodo antecedente alla Liberazione e quello successivo, mettendo in evidenza i retaggi e le dinamiche che sono persistite anche dopo il 1962.

Il funzionamento coloniale si è riprodotto, nonostante l’Indipendenza […] Il sentimento del contare poco in quanto individui e la pratica dell’offesa non sono mai scomparse. La distruzione del collettivo è stata una delle grandi progetti della colonizzazione. […] Il potere algerino, dopo l’indipendenza, non ha cessato di rompere, di sopprimere […] tutte le velleità di costruzione di una società civile”.

Ed è esattamente ciò che sta succedendo in queste settimane: la costruzione di una identità collettiva fortemente inclusiva che trae ispirazione dai valori della “prima” rivoluzione algerina senza annichilire l’individuo, che rompe lo scambio del vecchio “patto sociale” post guerra civile, tra annullamento politico della società e pace sociale.

La voce della sofferenza e del bisogno di riscatto è rimasta a lungo sotto traccia, confinata alle sottoculture giovali del tifo organizzato e della musica, in Algeria come in tutto il Maghreb.

Non è un caso che i cori da stadio siano diventati gli inni della protesta: così è stato in Tunisia con Testament dei tifosi del Club African, F’bladi Delmouni dei supporter del Raja Casablanca – ripreso dai manifestanti algerini – , e oggi con La casa del Mouradia dell’USMA di Algeri, che ritma costantemente le mobilitazioni.

Il calcio è stato un vettore di “socializzazione” delle classi subalterne algerine, una passione totale che ha segnato profondamente la vita quotidiana, la possibilità d’aggregazione e le chance di espressione di un malessere; un termometro sociale che già da tempo registrava la febbre di una sofferenza che non poteva essere contenuta e che sarebbe esplosa.

Il primo maggio 2016, allo stadio 5 luglio d’Algeri, per la finale della Coppa d’Algeria, gli ultras scandiscono insulti in direzione dello Stato, del presidente, dei generali e della polizia. Per le finali, lo Stato riempie un terzo dello stadio con degli ufficiali in uniforme. Generali, militari, poliziotti e pompieri sventolano bandiere algerine…

Un malessere che la rassegnazione dovuta all’immobilismo faceva ripiegare in comportamenti nichilistici (l’uso della droga, per esempio), l’esaltazione della cultura dei big del crimine organizzato divenute iconiche mediatiche attraverso le serie televisive, lasciando come unica alternativa l’immigrazione clandestina via mare… Poco a poco incomincia a trasformarsi in grido di denuncia verso il sistema e delle dinamiche che produce come nel caso della “casa”, divenendo un motivo popolare e popolarizzato.

Dalla strada allo stadio e dallo stadio alla strada…

Facciamo ora una breve panoramica della situazione delle fasce studentesche, utilizzando i dati forniti da Jean-Baptisme Meyer dell’Institut de Recherche pour le Development (IRD) in un suo contributo uscito su TSA.

Un primo dato è l’aumento degli studenti iscritti all’insegnamento superiore, passato dal 31 al 43% nel giro di sei anni, raggiungendo e oltrepassando la media mondiale (passata dal 32 al 37% nello stesso periodo), a cui i paesi vicini (Egitto, Marocco e Tunisia) invece si stanno avvicinando ma senza raggiungerla.

Negli ultimi venti anni il numero degli studenti è quadruplicato, passando dai 425mila della fine del “decennio nero” agli attuali un milione e settecentomila.

Lo stesso aumento in proporzione, curiosamente, che ha riguardato la Francia dalla fine della Seconda Guerra mondiale al Maggio ’68!

L’università in Algeria è libera, gratuita e sovvenzionata; tutti i dipartimenti territoriali possiedono come minimo una propria università, e chiaramente sono maggiori nelle realtà più densamente popolate come Algeri o le altre città settentrionali.

Due terzi della popolazione studentesca sono composti da donne, i loro successi scolastici sono superiori agli uomini.

All’inizio del XXI secolo le studentesse si “fermavano” alla licenza, mentre ora addirittura costituiscono la maggioranza tra le “dottorande”.

Rimangono fortemente però sottorappresentate tra gli insegnati (solo il 20% ottiene una cattedra), mentre sono la metà dei maitres-assistants.

L’Università è oggi un mondo in cui si va affermando una posizione di minore subordinazione sociale della donna, con migliori risultati, in potenza futuri “quadri” per una struttura economica che possa essere in grado di accogliere questa porzione istruita per ora “eccedente” e costretta a fare lavori de-qualificati e precari.

La maggior parte dei giovani, a causa della “precarietà”, è costretta a continuare a vivere tra le mura domestiche dei propri genitori: l’80% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, restando celibi o nubili.

Le possibilità di studiare all’estero si sono fatte sempre più aleatorie, vista la politica sull’immigrazione dai Paesi dell’area “core” (l’Unione Europea), e lo saranno ancora di più, considerando gli aumenti in Francia delle tasse d’iscrizione all’università e ai master per gli studenti non UE, di cui gli  algerini costituiscono – dopo quelli provenienti da Marocco e Cina – il gruppo più folto.

Tutti questi fattori hanno senz’altro contribuito a creare delle condizioni favorevoli affinché si sviluppasse questo movimento, che solo il mix letale di eurocentrismo e analfabetismo politico non fa cogliere in tutta la sua importanza in Italia.

Intanto la sua voce potente ha superato il Mediterraneo ed ha incominciato a scuotere la Francia…

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