Centinaia di migliaia di casseruole risuonano in tutto il Cile, sono il simbolo della rabbia, dell’indignazione e della resistenza di un intero popolo.
E’ dai tempi della dittatura che pentole, padelle e cucchiai vengono utilizzati per manifestare, pacificamente e rumorosamente, il proprio dissenso.
Ed è proprio in quei giorni che sembra di essere piombati quando si guardano le immagini che circolano sui social media. Un’escalation di violenza e repressione inaudita e ingiustificata, in un paese che fino a pochi giorni fa veniva definito, dallo stesso Presidente Piñera, come un’oasi di pace e di benessere nel panorama latinoamericano.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di chiarire quali sono le cause del malcontento sociale e di mettere in fila gli eventi di questi giorni.
Le ragioni della rivolta
Lunedì 7 ottobre viene annunciato un rincaro del trasporto pubblico a Santiago di circa 30 pesos per ogni corsa. Questo si somma a tanti altri rincari nei servizi di base (luce, acqua e gas) e soprattutto aggrava le condizioni di lavoratori poveri e indebitati, che non riescono ad arrivare a fine mese nonostante lavorino fino a 50 ore a settimana.
Il salario minimo è di circa 300mila pesos (370 euro) e quello medio di 400mila (495 euro), peccato però che il costo della vita per una famiglia nella capitale sia stato calcolato intorno ai 1.120.000 pesos (1386 euro). Il trasporto (spesa davvero irrinunciabile per tutti i lavoratori) può arrivare ad assorbire fino a un sesto dello stipendio di un lavoratore. Al costo già di per sé proibitivo del biglietto (circa 1 euro) si aggiunge il fatto che non sia prevista la possibilità di effettuare un abbonamento, questo perché l’azienda che gestisce il servizio (Transantiago) è una multinazionale più interessata a spostare i suoi utili all’estero che a rispondere alle esigenze dei beneficiari del servizio.
In questa situazione, le dichiarazioni del Ministro dell’Economia, che afferma che un lavoratore può “svegliarsi prima per usufruire delle tariffe ridotte previste nelle fasce orarie di minor afflusso”, sono la goccia che fa traboccare il vaso.
Lunedì 14 ottobre gli studenti delle scuole superiori si mobilitano, saltano i tornelli in massa e invitano tutti i passeggeri a fare lo stesso. Al grido di “evadir, no pagar, otra forma de luchar”, mettono in atto una forma di azione diretta largamente utilizzata dai loro coetanei durante la dittatura militare, che permette sanzionare e interrompere momentaneamente i flussi di produzione e sfruttamento della metropoli.
Giovedì la macchina della repressione si mette in moto, gli studenti sono inseguiti e manganellati dentro le stazioni della metropolitana. La tensione sociale sale velocemente. Alle rivendicazioni iniziali si somma il malcontento legato a un sistema scolastico privatizzato ed elitario, all’incapacità delle istituzione di farsi carico di una riforma costituzionale fortemente voluta dalla società civile (è ancora in vigore quella del 1980 redatta dal governo di Pinochet), al saccheggio delle risorse naturali in mano a pochissime imprese e famiglie, al collasso del sistema sanitario, agli scandali di corruzione tra politici, militari e poliziotti, a pensioni che non raggiungono i 250 euro.
Il sistema sociale cileno è una pentola a pressione pronta a esplodere, messo alla prova e portato allo stremo da decenni di selvaggia sperimentazione neoliberista. Le rivolte di questi giorni, lungi dall’essere un caso isolato, sono sintomatiche e rappresentative della profonda crisi politica e strutturale che attraversa il modello di sviluppo neoliberale in tanti altri paesi del mondo. In Cile questa dottrina economica è stata applicata nella sua forma più pura, senza costrizioni né limiti. E così, sebbene sia uno dei paesi Latinoamericano dove la crescita economica ancora regge (circa il 2,5%), le disuguaglianze socio-economiche che lo attraversano gli assicurano numerosi primati.
Il Cile l’unico paese al mondo dove l’acqua viene trattata come qualsiasi altro bene di mercato, l’1% più ricco della popolazione concentra il maggior numero di ricchezze (circa il 33%), 11 dei 18 milioni di abitanti sono indebitati, vanta il più alto tasso di interesse per i prestiti studenteschi (superiore all’8%), perfino le pensioni sono gestite tramite enti privati (AFP) e la gente fa la spesa al supermercato pagandola a rate.
A ciò si aggiunge una violenta repressione dei movimenti sociali. Dal 2011 gli studenti scendono in piazza contro il modello scolastico privatizzato ed elitario. L’anno passato i professori hanno marciato a piedi da Santiago a Valparaiso contro la proposta, divenuta legge, di abolire la storia dagli insegnamenti scolastici; i ragazzi e le ragazze in sciopero per la stessa causa sono picchiati e arrestati all’interno delle loro scuole. Le popolazioni indigene del Sud, i Mapuche, sono vittime di una guerra strisciante per l’accaparramento delle loro (ricchissime) terre che non si sa più quando sia iniziata. Diversi anche gli omicidi politici, i più noti sono quello di Macarena Valdés (2016) attivista per la salvaguardia dell’ambiente e di Alejandro Castro (2018) leader del movimento dei lavoratori portuari.
L’escalation della violenza
Simbolo dell’inizio della violenza è il sospetto incendio al palazzo dell’Enel nel centro della capitale. Come le reti sociali non mancano di far notare, il rivoltoso capace di tirare una molotov a tale altezza deve essere un campione olimpico visto che l’incendio divampa all’undicesimo piano! La polizia attacca i manifestanti che iniziano ad alzare barricate, si verificano incendi e i primi atti di vandalismo, nel tardo pomeriggio comincia a circolare la voce di un possibile coprifuoco.
Sabato le strade sono gremite di persone, marce e presidi si diffondono a macchia d’olio, dai centri urbani ai villaggi di provincia. Agli studenti si uniscono i professori, i lavoratori della salute, i movimenti per il diritto all’abitare e quelli in difesa dell’ambiente, i portuali, le femministe e gli attivisti Mapuche, le manifestazioni sono ormai trasversali a tutti i settori della popolazione. Da una parte, forme di protesta perlopiù pacifiche: danze per le strade, famiglie intere in piazza, musicisti che suonano negli autobus dati alle fiamme la notte precedente. Dall’altra, incendi, barricate e furti nei supermercati, eventi senza dubbio minoritari che in seguito è stato dimostrato essere molto spesso opera delle stesse forze dell’ordine.
Nel pomeriggio, il presidente Piñera, accompagnato dal Generale Iturriaga, dichiara lo stato di emergenza (della durata di 15 giorni e rinnovabile) ed un coprifuoco notturno nell’area metropolitana di Santiago. I militari scendono nelle strade e sono autorizzati a sparare. Una mossa politica permessa da una costituzione di stampo militarista che arroga grandi libertà al presidente. Questa mossa viene definita da più parti come un tentativo di “spegnere l’incendio del malcontento sociale versandoci sopra benzina”. Errore maldestro o strategia politica che sia il dado è tratto, indietro non si torna.
Già nel pomeriggio iniziano i caroselli dei blindati in mezzo ai manifestanti, pestaggi violenti a civili con le mani alzate, lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, detenzioni illegittime, nelle reti sociali già si comincia a parlare di morti. #EstoPasaEnChile e #ChileDespertó sono tra gli hashtag più seguiti. La repressione arriva fin dentro le case private: i carabinieri entrano, spesso sparando lacrimogeni, e portano via le persone. La solidarietà è altissima, su WhatsApp circolano informazioni su punti di ristoro allestiti per i manifestanti nelle case.
La gente non crede alle sue orecchie e ai suoi occhi, un campanello comincia a trillare scuotendo la memoria storica e individuale del paese. Lo stato di emergenza e il coprifuoco segnarono l’inizio della dittatura militare del Generale Pinochet, quest’ultimo fu applicato per l’ultima volta nel 1987, e mai più in democrazia. I sequestri di persona lasciano semplicemente senza parole. Il ricordo della dittatura è vicino, e brucia ancora. La gente è fermamente intenzionata a che la storia non si ripeta. Allo scoccare del coprifuoco, invece di rifugiarsi nelle proprie case, si riversa in massa per le strade. #ChileResiste e chi non se la sente di uscire fa rumore sbattendo pentole e padelle alle finestre, cacerolazos da dentro le mura domestiche, come negli anni settanta.
Poche ore dopo in parlamento viene revocato l’aumento al prezzo del biglietto. Ma la rabbia della società civile è ormai incontenibile, la democrazia si rivela una farsa non solo da un punto di vista economico ma anche politico e civile, la gente urla “no son 30 pesos, son 30 años”. Il paese è in fiamme e #RenunciaPiñera è uno dei trend più seguiti a livello mondiale. Nel frattempo, il Presidente impassibile si fa fotografare in un ristorante esclusivo a mangiare pizza con la sua famiglia.
La strategia del caos
A questo punto è evidente la strategia delle massime autorità pubbliche e delle forze di sicurezza: mandare in tilt il paese.
La militarizzazione dello spazio pubblico e la violenza creano un panico generalizzato auspicabilmente capace di dividere i manifestanti e neutralizzarne le rivendicazioni sociali. Molte stazioni della metropolitana, soprattutto quelle periferiche, vengono date alle fiamme, la mobilità dei cittadini è compromessa. I supermercati e negozi sono bruciati e saccheggiati, così la popolazione teme che la carenza di beni di consumo diventi strutturale. I bancomat vengono manomessi e le banche distrutte, impossibilitati a prelevare contanti, i cittadini comuni si sentono ancora più vulnerabili. Quartieri interi vengono lasciati senza luce o senza acqua corrente. Nel frattempo lo stato di emergenza viene allargato a molte altre città in tutto il paese ed arriverà a coprire l’80% del territorio nazionale.
La stampa compiacente gioca un ruolo fondamentale nell’alimentare questa retorica. I mezzi di comunicazione “tradizionali” si allineano alla narrativa di un esercito in difesa della sicurezza dei concittadini contro un manipolo di delinquenti. Le televisioni mostrano quasi esclusivamente immagini di devastazione o lunghe code fuori dai supermercati. Omettono sistematicamente di mostrare le piazze gremite di manifestanti pacifici o le violenze della polizia.
I media indipendenti sono pesantemente criminalizzati: diversi giornalisti vengono arrestati illegalmente, subiscono pestaggi, sono colpiti da lacrimogeni a distanze ravvicinate. Inoltre sussiste il problema dei salvacondotti necessari per continuare a lavorare durante il coprifuoco, i commissariati che dovrebbero rilasciarli sono sempre chiusi.
Le notizie girano sui social networks, che diventano strumento di informazione non solo legittimo, ma oggettivo. Si stilano liste di radio e giornali amici da diffondere fuori e dentro il paese, su Twitter viene lanciato l’hashtag #LaPrensaMiente.
Moltissimi video dimostrano, senza lasciar adito ad alcun dubbio, come buona parte degli atti di vandalismo siano opera della polizia, azioni costruite ad hoc per giustificare la repressione. Poliziotti che appiccano incendi nei supermercati e nelle metro, saccheggiano i mercati rionali, divelgono serrande e poi incitano gruppi di poverissimi a rubare ordinatamente gli articoli che preferiscono. Gli infiltrati sono ovunque. Documentati anche i montaggi messi a punto da alcuni canali televisivi. La società civile cerca di autorganizzarsi, gruppi di vicini e manifestanti vigilano sullo spazio pubblico e le proprietà dei privati nel totale disinteresse delle forze dell’ordine
Come in un incubo
Domenica il presidente dichiara di essere “in guerra contro un nemico potente e implacabile, che non rispetta nessuno ed è disposto ad usare la violenza senza alcuna riserva”. Adesso la furia ceca dei militari non ha più freni. La società civile risponde con la campagna #NoEstamosEnGuerra.
Le immagini sono macabre e lascio a ciascuno decidere se guardarle o no. Pestaggi a manifestanti pacifici, donne e minori, fucili da guerra puntati sui pompieri, corpi inermi trascinati per la strada o gettati dalle camionette in corsa, mitra puntati alla testa di persone che magari per pochi minuti non hanno fatto in tempo a raggiungere le loro case prima dello scattare del coprifuoco, spari ad altezza uomo, feriti da arma da fuoco, persone dissanguate per la strada, una donna ritrovata morta appesa ad un cancello. Le immagini più inquietanti mostrano le forze armate che di notte rimuovono dei corpi da un luogo isolato per portarli non si sa dove. Molte le testimonianze di tortura e di violenza sessuale, mercoledì l‘INDH (Istituto Nazionale Diritti Umani) identifica un centro adibito a questo scopo in una centralissima stazione della metropolitana a Santiago.
Si contano i morti e i desaparecidos, le stime ufficiali si fermano ai corpi carbonizzati nei grandi incendi e ai morti per arma da fuoco. Per la gente sono decine le persone che mancano all’appello. “L’incubo dei nostri genitori è diventato il nostro” mi dicono. Quando una persona viene portata dai militari urla nome e numero del documento di identità.
Su Twitter si parla di #DerechosUmanosEnChile e di #PineraDictator. Con un certo ritardo, martedì anche l’ex Presidente Bachelet, Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, si dichiara preoccupata per l’eccessivo uso della forza e chiede indagini indipendenti sulla morte dei civili. Mercoledì annuncia che invierà degli osservatori internazionali. Si scatena un dibattito tra la CIDH (Commissione Interamericana per i Diritti Umani) e l’INDH sui numeri della violenza. Quest’ultima apre diverse azioni giudiziarie. L’ordine dei medici denuncia di aver subito intimidazioni per impedirgli di diffondere informazioni in loro possesso.
Una cosa è certa, ci sono state decine di morti (i manifestanti ne contano più di 40), diversi casi di violenza sessuale, centinaia di feriti di cui molti da arma da fuoco, molti desaparecidos, migliaia di arresti (di cui un rilevante numero di minori) e torture.
L’appoggio ai manifestanti non cala, si condanna la violenza gratuita ma ricorre il pensiero che se trenta anni di manifestazioni pacifiche non hanno portato a niente, l’unica soluzione è tenere la testa alta di fronte alla violenza della repressione.
“I militari nelle strade stanno cercando di coprire il sole con un dito” così un’amica riassume la situazione. Mi chiedo come possano sopportare tutto questo. La loro risposta è racchiusa in uno degli slogan più rappresentativi di queste giornate: “Nos quitaron tanto que nos quitaron hasta el miedo”.
Lo sciopero nazionale e gli ultimi sviluppi
Da lunedì è in corso uno sciopero nazionale, convocato dagli studenti a cui velocemente hanno aderito oltre 20 sigle sindacali, i cortei in giro per il paese si sono moltiplicati. Gli insegnanti, i lavoratori della salute e i portuali sfilano in tutto il paese. Una ventina di porti, la più grande miniera del mondo e tutte le università sono chiuse. I camionisti bloccano le principali arterie stradali. I sindacati invitano i lavoratori a incrociare le braccia proprio in nome dello stato di emergenza, che autorizza il lavoratore che teme per la propria incolumità a non recarsi al lavoro.
La mobilitazione durerà sicuramente fino a venerdì ma l’intenzione sembra quella di resistere a oltranza. La società civile e i sindacati invocano lo sciopero parlamentare e chiedono la revoca dello stato di emergenza, del coprifuoco e il ritorno dei militari nelle caserme come condizione minima per instaurare un dialogo.
A nulla sembra essere servita la nuova proposta di legge presentata mercoledì da un Piñera definito dalla stampa internazionale come sommesso e dispiaciuto. Un pacchetto finanziario da diversi milioni di dollari che prevede un aumento del 20% delle pensioni minime, aumento dei salari minimi di 50.000 pesos (62 euro), promesse su imposte addizionali all’1% più ricco della popolazione, taglio dei costi della politica e dei farmaci. Inutile anche la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali.
I partiti storici della vecchia concertazione (centro-sinistra) Democrazia Cristiana, Partito Per la Democrazia e Partito Radicale e in parte anche il Partito Socialista accettano le proposte di Piñera e chiamano all’unità nazionale. Fruente Amplio e il Partito Comunista rifiutano di intavolare una trattativa senza il ritiro immediato dei militari.
Tra la gente queste misure sono viste come il vano tentativo di un uomo sconfitto e arrabbiato di uscire da una crisi che forse gli è scappata di mano. Piñera vuole salvare faccia, “onore” e poltrona. Difende fino all’ultimo le scelte politiche di repressione e terrore sociale, non fa menzione della riforma costituzionale, non mette in discussione né il modello economico né il sistema sussidiario di erogazione dei servizi di base. Le misure menzionate nella manovra sono definite insufficienti e palliative dalle organizzazioni sindacali. Le pensioni sociali sono così basse che l’aumento significherà circa 20.000 pesos (25 euro) in più al mese, l’AFP non viene toccata, gli aumenti dei salari minimi verranno coperti con un fondo statale e lasceranno intatti i margini di profitto delle imprese.
Giovedì la Commissione Diritti Umani, Nazionalità e Cittadinanza presenta un esposto in parlamento in cui denuncia l’incostituzionalità dello stato di emergenza dovuta alla mancata delega ufficiale del Presidente agli alti funzionari dell’esercito, a limitazioni dei diritti civili non previste costituzionalmente e alla presenza di riferimenti normativi ad articoli di legge precedentemente abrogati.
Oltre ogni dibattito parlamentare, il popolo vuole le dimissioni del presidente cha ha giocato a fare il dittatore e anche quelle del Ministro degli Interni Chadwick, ex-esponente di rilievo della dittatura militare che forse non ha saputo resistere alla tentazione di rievocare i suoi giorni da leone. Le mobilitazioni continuano, i fatti di questi giorni hanno creato una frattura nella società cilena che sarà difficile da colmare. L’inganno è smascherato: la violenza della repressione, la permeabilità del limite tra stato di diritto e stato di terrore segneranno per anni a venire il dibattito pubblico nazionale e auspicabilmente porteranno il paese alla tanto agognata assemblea costituente.
P.S. La maggior parte dei dati numerici utilizzati per questo articolo provengono dalla Fundación Sol
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