Sulla distruzione di Beirut fioccano le interpretazioni, le mascherature e le “distrazioni di massa”. E’ logico, visti gli interessi geopolitici in gioco, anch’essi non detti e anzi nascosti sotto una coltre di disinformazione – questa sì – “professionale”.
Da Altrenotizie prendiamo questa analisi un po’ più concreta, redatta da Fabrizio Casari. Il quale tra i vari aspetti coglie quello del tentativo di “condizionamento” della sovranità di quel paese palesatosi con il viaggio lampo di Macron in visita solitaria alle macerie del porto (nella prassi diplomatica ordinaria, sarebbe stato accompagnato dal presidente o dal primo ministro del Paese ospitante).
Questo aspetto è particolarmente interessante, per noi “cittadini europei”, perché il discorso fatto da Macron sul Libano è un clone quasi perfetto della logica vigente all’interno dell’Unione Europea, giusto con quel tanto di prepotenza in più che una potenza colonialista è abituata ad esibire nei confronti degli “inferiori”.
Per cogliere il nesso, vale la pena di citare la cronaca fattane da Repubblica, giornale della famiglia Agnelli, che usa il “linguaggio standard” nell’europeismo imperialista:
“Dopo la doppia esplosione che ha devastato Beirut martedì, i leader internazionali si sono riuniti oggi per raccogliere aiuti. Alla conferenza virtuale – organizzata dalla Francia e dalle Nazioni Unite – i Paesi e le istituzioni che hanno partecipato alla conferenza dei Donatori di sostegno al Libano si sono impegnati per aiuti per oltre 250 milioni di euro. Lo ha reso noto l’Eliseo.
Al di là degli aiuti di emergenza, offerti senza condizioni, i partecipanti si sono detti pronti a sostenere la successiva ripresa economica e finanziaria del Paese, ma hanno sottolineato che questo richiede che le autorità libanesi si impegnino a portare avanti le riforme invocate a gran voce dalla popolazione.
Alla riunione hanno partecipato rappresentanti di 28 Paesi, tra i quali Stati Uniti, Spagna e Brasile, e istituzioni come l’Unione Europea, la Lega Araba, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.”
Già il catenaccio era esplicito: “Gli aiuti sono stati offerti senza condizioni ma vincolati alle riforme invocate dalla popolazione”
E’il linguaggio con cui si presentano, in Europa, il recovery fund o il Mes, o qualsiasi altro accordo per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia: aiuti senza condizioni ma vincolati. Non serve un professore di logica per notare la contraddittorietà insostenibile di questa frase ripetuta ogni ora. “Senza condizioni” e “vincolati” significano due cose semplicemente opposte.
Il terzo elemento di somiglianza è il termine “riforme”. Che, come sappiamo bene, non significa nullo di buono per le popolazioni che dovranno esserne oggetto. Da decenni, ormai, il “riformismo” ha perso quell’aura “progressiva” che aveva assunto al tempo in cui in movimento operaio macinava conquiste e, da parte borghese, si provava ad elaborare le concessioni sotto forma di “riformismo”, in modo da contrastare nei limiti del possibile la spinta alla rivoluzione.
“Riforme”, da qualche decennio, sta a significare semplicemente una organizzazione sociale e istituzionale più corrispondente agli interessi della classe dominante.
Sia all’interno dell’Unione Europea che, a maggior ragione, dei Paesi mediterranei.
La situazione sociale libanese, peraltro, è in effetti segnata da pesanti squilibri che contrappongono il sempre precario establishment locale – già di suo condizionati dai contrastanti interessi strategici sul Medio oriente – e la popolazione in generale. Quindi il discorso neoloniale può agevolmente declinare la pretesa ricattatoria classica (“aiuti in cambio di riforme”) con una specificazione retorica più tranquillizzante “riforme pretese a gran voce dalla popolazione”.
Basta riandare con la memoria alla storia del colonialismo francese (Vietnam, Algeria, Africa sub-sahariana, ecc) per sapere con certezza che le popolazioni di qualsiasi Paese non hanno mai avuto nulla per cui ringraziare il “disinteressato interessamento” francese o di altre potenze.
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Beirut, tutto quello che non torna della “versione ufficiale”
Le tremende esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut appaiono, man mano che i giorni passano e le parole s’intrecciano, sempre meno fatalità e sempre più volontà precisa di qualcuno.
A confermare questa lettura ci sono interessi evidenti e specifiche tecniche difficili da confutare. Il racconto della fabbrica di fuochi d’artificio non ha retto; nessuno dotato di un minimo si logica e di senno installa una fabbrica di fuochi pirotecnici in un’area ad alto traffico di persone e merci.
Allora,vista la scarsa credibilità di questa pista, in soccorso del depistaggio internazionale è arrivata la storia della nave ormeggiata in porto (ovviamente russa, ma solo perché non vi sono navi cinesi che operano in zona).
Ciò che si è voluto spacciare come versione più credibile è l’ipotesi che si sia trattato di una violentissima esplosione di nitrato, ma i dati tecnici a supporto non sembrano confermare. Perché una esplosione di nitrato produce fumo nero e non bianco e rosso come si vede nei filmati. Inoltre, indipendentemente dalla quantità di nitrato, in nessun modo una sua esplosione può sviluppare la forma “a fungo” che si è vista nei video, tipica invece di una esplosione atomica, anche a bassissimo potenziale.
Da ultimo, per un cortocircuito, per il fuoco o per alta temperatura il nitrato non esplode: serve un detonatore con innesco. E comunque, per quanto forte sia l’esplosione del nitrato, essa non determinerà mai un terremoto di 4,5 gradi della scala Richter, come quello registrato a seguito delle esplosioni.
Le esplosioni, va ricordato, sono state due e non simultanee. La probabilità che acquista forza di ora in ora è che si sia trattato di due missili, il secondo dei quali lanciato dopo l’arrivo dei soccorritori. Secondo Hussein Karim, esperto di esplosivi, il primo sembra un missile antinave del tipo Gabriel, il secondo del tipo Dalila. Dunque si sarebbe trattato di un attentato israeliano.
Se questa pista sarà confermata dalle indagini dell’esercito libanese, ci sarebbe da indignarsi. Ma non da stupirsi: non sarebbe infatti la prima volta che Israele colpisce in modo vigliacco e sanguinoso i paesi circostanti e lo stesso Iran. Non c’è paese arabo, sciita o sunnita, che abbia avuto il privilegio di essere risparmiato dalle aggressioni israeliane. E meno che mai ci si potrebbe stupire ora, dopo che Netanyahu ha in qualche modo rivendicato l’attacco e quando Tel Aviv gode del massimo sostegno politico e militare statunitense dalla sua nascita che la mette al riparo da ogni tipi di reazione militare e politica.
Ma quali che siano le ipotetiche, specifiche responsabilità israeliane, risultano evidenti i progetti di destabilizzazione del Libano che Stati Uniti, Francia e Israele propugnano con forza.
L’obiettivo della nuova campagna di destabilizzazione in Libano è Hezbollah, il “partito di Dio”, l’organizzazione politico-religiosa sciita che ha come guida Nasrallah. Appare probabilmente un dettaglio il fatto che tra sciiti e drusi il 42% della popolazione libanese si senta rappresentato proprio dal “Partito di Dio”.
Hezbollah deve la sua popolarità in Libano sia al sostegno attivo alla popolazione che alla sua capacità di difendere l’indipendenza e la sovranità territoriale del paese dei cedri grazie ad un dispositivo militare di primissimo ordine.
Ben lo sa Israele, che venne già severamente castigata nel 2006, quando invase il Libano e venne costretta alla ritirata proprio da Hezbollah, che inferse un duro colpo all’immagine di presunta invincibilità di Thasal. Del resto, quando una guerriglia affronta un esercito, se non viene distrutta ha vinto: mentre quando un esercito affronta una guerriglia, se non la distrugge ha perso.
Hezbollah non solo non venne sconfitto, meno che mai disarmato, anzi aumentò notevolmente le sue capacità militari a spese dell’esercito israeliano e della popolazione dell’Alta Galilea.
Quattordici anni dopo la situazione non è cambiata: Hezbollah, in stretta alleanza con Assad, con la Russia e con l’Iran, ha svolto un ruolo importantissimo nella difesa della Siria dal terrorismo di Isis, Al Nusra ed Esercito libero siriano, tutti impegnati con ruoli diversi nel cancellare il legittimo governo siriano e consegnare ad Israele ben più che le alture del Golan.
Nemmeno mezzo milione di morti ed un paese distrutto sono stati sufficienti a sconfiggere la Siria e, dopo quella del 2006 in Libano, Israele somma un’altra sconfitta nel suo progetto di occupazione di ogni lembo di terra mediorientale.
Insomma Hezbollah è oggi, agli occhi delle masse arabe, il simbolo della resistenza araba contro Israele, una nuova pagina della dottrina militare mediorientale che ha nella guerriglia organizzata e nell’insediamento popolare una forza prima sconosciuta. Che non vede più Tsahal, l’esercito israeliano, come dominatore incontrastato della regione, monito e minaccia per ogni rivendicazione politico-militare araba, deterrente internazionale contro la messa in discussione degli equilibri geopolitici di tutto il Medio Oriente e del Golfo Persico. Il Partito di Dio riscuote oggi di un credito politico e d’immagine presso tutto il mondo arabo che potrebbe dar luogo ad emulazioni in diverse realtà, quella palestinese innanzi tutto.
Le strumentalizzazioni della cosiddetta “crisi politica libanese”, che altro non è se non l’impossibilità da parte del falangismo cristiano maronita (alleato di Israele) di eliminare la componente sciita dall’arena politica, sono una parte fondamentale nelle operazioni di depistaggio mediatico. Il tentativo dell’Occidente è quello di provocare una nuova “primavera araba” che, come già in passato, viene organizzata da anni di preparativi e di infiltrazioni, di finanziamenti e direzione politica straniera. Sentiremo parlare di “rivolte spontanee”, di “lotta alla corruzione” di rivolta contro la componente religiosa sciita, di rifiuto del controllo iraniano del Libano tramite Hezbollah. Sembrano tesi verosimili ma non c’è nulla di vero. Sono le coordinate informative dell’ennesimo colpo di stato travestito da rivolta popolare già andato in onda in Egitto, Tunisia, Giordania, Iran.
Non a caso il Presidente francese, Macron, si è recato con straordinario tempismo a Beirut, volando come un falco sulle macerie a sostenere la famiglia Hariri, che come la Francia é legatissima all’Araba Saudita e ai suoi petrodollari.
Non è un caso che Beirut abbia affidato l’esplorazione offshore di gas e petrolio a un consorzio capeggiato dalla francese Total con l’Eni e la russa Novatek.
Il piano di salvataggio del Libano, prima della deflagrazione al porto, era stimato 10-15 miliardi di dollari, oggi è molto di più. Un fiume di denaro che l’Occidente non vuole vada ad Hezbollah: ecco perché è piombato su Beirut.
Macron ha condizionato gli aiuti internazionali alla resa incondizionata all’Occidente della sovranità libanese, rassicurando però i libanesi sulle loro sorti e sui loro soldi qualora decidessero di restituire alla Francia il dominio coloniale come lo ebbe dal 1923 al 1943. Che prova a mettere insieme Grecia ed Egitto ma si prende il NO deciso da Ankara, che umilia Parigi anche in Libia.
La sponsorizzazione del consorzio composto da Grecia, Egitto, Cipro e Israele, prevede la realizzazione del gasdotto EastMed per costituire un blocco di interessi del fronte anti-Ankara ha nel Libano un altro decisivo pezzo del puzzle del sistema “alla francese”.
Divertente che Macron, un omino incapace di piegare i gilet gialli, pensi di sconfiggere Hezbollah e Turchia. La grandeur dell’Eliseo ha preso un colpo di calore.
* da Altrenotizie
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