Chi ha sostenuto in Occidente – anche all’interno della “sinistra radicale” – il cosiddetto movimento “pro-democrazia” ad Hong Kong, lo ha fatto spesso senza una chiara analisi della composizione sociale e dei contenuti politici delle proteste, ignorandone o negandone le importanti valenze geopolitiche.
Un atteggiamento che è, nel migliore dei casi, in parte il riflesso di quello tenuto da quelle componenti politiche locali o della “diaspora” – organiche alle mobilitazioni – “valorizzate” anche nei nostri lidi.
Queste proteste sono state trattate positivamente fino alla nausea dai media-mainstream nostrani, all’interno di una articolata campagna di disinformazione strategica rispetto alla Cina, al pari di tutte le “rivoluzioni colorate” o i loro tentativi abortiti, in tempi recenti.
In generale, non si è voluto indagare sulla società che le ha partorite, né tantomeno sulla stratificazione di interessi e sul profondo marciume ideologico ad essa soggiacente.
L’articolo che abbiamo qui tradotto ha l’indubbio merito di affrontare gli aspetti più rimossi, partendo da un apparente paradosso: il sostegno di massa a Donald Trump e la larga ostilità a Black Lives Matter ad Hong Kong.
Paradossale perché la politica “anti-cinese” è un patrimonio bipartisan che comprende anche l’establishment democratico, che ne fa una delle sue priorità!
L’ampio consenso goduto da Donald Trump tra gli abitanti di Hong Kong rivela alcuni tratti comuni tra la cornice ideologica dell’ex outsider repubblicano e la configurazione di valori egemoni nel “Porto Profumato”, tranquillamente tollerati dentro il movimento anche dai sedicenti intellettuali liberali, con cui l’autore invita a fare i conti.
Tutta la vecchia merda della più putrida ideologia delle classi dominanti è stata politicamente normalizzata.
Alla fine è il movimento che ha promosso l’estrema destra…
Quello dell’autore, che comunque simpatizza con questo movimento, ci sembra comunque un tentativo piuttosto tardivo e velleitario di una un po’ goffa presa d’atto. Non ne trae le necessarie conclusioni: si tratta, né più né meno, di un movimento che si è offerto a livello maggioritario come “Quinta Colonna” dell’imperialismo anglosassone, con cui condivide il background, per mantenere alcuni privilegi che saranno in prospettiva alquanto relativizzati, sia nel contesto dello sviluppo regionale che della Cina tutta.
Il ruolo svolto dalle élite collaborazioniste nel sistema coloniale britannico ha prodotto una “narrazione di sé” che si sta perpetuando oltre i limiti temporali di quell’esperienza, in grado di esercitare ancora la propria egemonia su larghi strati sociali.
Una narrazione molto simile ad alcune concezioni mutuate dal colonialismo europeo, presenti nel sionismo, nel Sud Africa dell’Apartheid, o ancora nella destra latino-americana.
Un atteggiamento strutturalmente razzista nei confronti dei cittadini della Repubblica Popolare, ritenuti altro da sé, e dei lavoratori immigrati, che si sposa con un “eccezionalismo Hong-Konghese” ed una contiguità con l’Occidente degna appunto del peggior suprematismo bianco.
“Hong Kong” – dice Li – “non ha mai fatto i conti con il proprio senso privilegiato di eccezionalità, ottenuto grazie alla sua particolare posizione all’interno e nelle vicinanze dell’imperialismo occidentale, anche se molti all’interno ne soffrono le conseguenze.”
Il mantenimento dello status quo dentro un assetto politico differente, “staccato” dalla Cina continentale, sembra essere l’unico vero orizzonte concreto. Questo al di là delle narrazioni consolatorie di chi non comprende come l’output politico filo-imperialista le qualifichi integralmente.
Buona lettura
*****
E’ tempo per Hong Kong di fare i conti con la sua estrema destra
Il fatto che i movimenti del 2019 abbiano promosso l’ascesa dell’estrema destra richiede un serio esame collettivo per gli Hong-Konghesi.
Nel bel mezzo delle elezioni statunitensi, Hong Kong si è ritrovata nuovamente sotto i riflettori internazionali, questa volta coinvolta nel bel mezzo di una campagna di disinformazione di estrema destra.
I circoli interni al popolare quotidiano cittadino Apple Daily hanno fabbricato e promosso false accuse secondo cui Hunter Biden (il figlio del nuovo presidente, sotto inchiesta anche per gli affari in Ucraina, ndr) sia sotto il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC), un’affermazione che ha fatto il giro dei media dell’Asia orientale, contribuendo a far rivolgere il sentimento pubblico contro la campagna di Biden, al di là di Hong Kong.
Mentre la componente xenofoba di destra è ancora disorganizzata, l’influenza del suo discorso cresce di giorno in giorno in città. I canali pro-democrazia, da LIHKG alle sezioni di commento di Stand News, sono passati dal tollerare le idee di destra al doverle trattare come la norma.
La crescita dei sostenitori di Trump, sia a Hong Kong che nella sua diaspora, fornisce la più grande prova con cui il movimento della città deve fare i conti: come è emerso un fanatico polo di destra da un movimento apparentemente impegnato a evitare discussioni ideologiche, e che, fino allo scorso anno, ha mostrato scarso interesse per la politica globale?
Aspettando Trump
Nessuno di questi sviluppi rappresenta una novità. Sin dalle proteste contro il disegno di legge anti-estradizione, una minoranza rumorosa di attivisti di destra ha assunto la posizione secondo cui Trump fosse la migliore possibilità di liberazione di Hong Kong.
Jimmy Lai, il fondatore dell’Apple Daily, ha scritto un editoriale sostenendo Trump e attaccando Biden. Lo stesso Apple Daily ha diffuso la narrazione xenofoba di destra, in particolare contro gli immigrati dalla Cina continentale, anni prima delle proteste dello scorso anno. E quest’anno, un numero crescente di hongkonghesi ha promosso a gran voce la disinformazione e i mezzi di comunicazione pro-Trump, e ora sta vendendo la sfacciata disinformazione della campagna di Trump sui risultati delle elezioni.
Un recente sondaggio YouGov mostra che Hong Kong ha uno dei più alti tassi di sostegno a Trump nella regione Asia-Pacifico. Un altro sondaggio preliminare, condotto dai ricercatori Maggie Shum e Victoria Hui, ha rivelato che la maggioranza degli americani di Hong Kong intervistati ha sostenuto Trump.
Tutto questo nonostante il fatto che la guerra commerciale e le sanzioni contro la Cina – azioni propagandate dai sostenitori di Trump come “azione effettiva” contro la Cina – non stiano avvantaggiando nessuno, dagli hongkonghesi alle imprese e ai consumatori statunitensi.
Hong Kong non ha mai dovuto fare i conti con un conservatorismo profondamente radicato nel cuore della sua identità. Possiamo fornire una quantità di ragioni per giustificare questa emergente agenda di destra, come ad esempio l’ignoranza dovuta alla disinformazione dilagante o sentimenti di disperazione.
Ma questi sono solo i sintomi del problema centrale, ovvero che, indipendentemente dal motivo, gli hongkonghesi hanno ricevuto e rigurgitato ad alta voce e con entusiasmo questa propaganda. Molti sono felici di ignorare come le affermazioni di Trump sulla frode elettorale siano state completamente smentite e sono felici di non riconoscerne i suoi crimini. Tuttavia, queste persone concludono, è “un male necessario” che sono disposte a sostenere perché si accontentano di sacrificare qualcun altro per la propria salvezza.
Più incredibilmente, agli hongkonghesi che sostengono Trump va bene ignorare tutti gli episodi in cui Trump si è voluto ingraziare Xi Jinping contro il movimento di Hong Kong, quando ciò era funzionale alle sue macchinazioni politiche.
Trump ha condannato Obama per essersi preso la briga di sostenere le “proteste dell’Ombrello” nel 2014. Ha ripetutamente affermato che il destino di Hong Kong doveva essere lasciato a Xi, dicendo che “la Cina non è un nostro problema, sebbene Hong Kong non aiuti” e che non avesse alcun dubbio sul fatto che “se il presidente Xi volesse risolvere rapidamente e umanamente il problema di Hong Kong, potrebbe farlo“.
Dopo l’approvazione al Senato dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, Trump ha pubblicamente preso in considerazione l’idea di porre il veto sul disegno di legge per preservare il suo rapporto con Xi prima di accettare finalmente di firmarlo.
Forse la fedeltà acritica degli hongkonghesi verso Trump, nonostante la sua posizione incoerente nei confronti della Cina, è il sintomo di una connessione politica più profonda che lega molti hongkonghesi all’estrema destra americana.
Molti hongkonghesi, proprio come i razzisti bianchi, stavano aspettando una figura come Trump. Egli incarna sfacciatamente l’ethos sciovinista che è stato latente nella cultura di Hong Kong e mantiene il suo privilegio in questo iniquo sistema globale: che dobbiamo preservare la nostra cultura, specialmente gli aspetti importati dai paradigmi occidentali, contro gli stranieri non bianchi, che la stabilità economica dipende solo dal proprio duro lavoro, indipendentemente dalla disuguaglianza sistemica, e che il “discorso minoritario” minaccia una città la quale ha beneficiato a lungo del suo posto nell’economia globale capitalista.
Questo va oltre ciò che Yao Lin vede come “l’idealizzazione beaconista della politica interna occidentale” (soprattutto americana) come priva di ingiustizia sistematica, e, che, quindi non necessita di una rettifica “radicale”; una visione, quest’ultima, sposata da alcuni intellettuali liberali cinesi. Per molti non c’è niente da sanificare.
Un sentimento strutturalmente colonialista
La democrazia limitata dell’America, che i sostenitori di Trump di Hong Kong lo ammettano o meno, è per loro precisamente il sistema ideale, e il trumpismo, per la maggior parte, è solo il suo estremo logico, impacchettato in una retorica già familiare agli hongkonghesi grazie agli editorialisti dell’Apple Daily e ad altre esponenti locali di destra.
Questa è la “libertà” che molti ad Hong Kong hanno sempre desiderato: riservata a pochi e privilegiati, un sistema con cui bisogna giocare per prosperare e gioiosamente accontentarsi delle mere illusioni della democrazia. In altre parole, Hong Kong non ha mai fatto i conti con il proprio senso privilegiato di eccezionalità, ottenuto grazie alla sua particolare posizione all’interno e nelle vicinanze dell’imperialismo occidentale, anche se molti all’interno ne soffrono le conseguenze.
In effetti, l’accettazione e la tolleranza da parte degli hongkonghesi per il discorso di Trump rivela il limite più oscuro e più grande della sua lotta per la libertà. Il discorso a favore della democrazia mainstream non si è mai veramente interessato alla vera libertà per tutti in città, né a ciò che essa implicherebbe. E la volontà dei liberali e dei “progressisti” di Hong Kong di accogliere queste opinioni estremiste di estrema destra nei loro ranghi non è semplicemente debolezza ideologica, ma una caratteristica incorporata nel principio del movimento di “nessuna grande piattaforma” (無 大 台).
La xenofobia di destra è scusabile e tollerata, perché i suoi principi centrali sono condivisi in molti modi. Questo è il motivo per cui il nativismo non è limitato alla destra estremista di Hong Kong; è presente nella rispettabile adozione da parte dei liberali del “nazionalismo civico“, o nel silenzio cospicuo della società civile sulle condizioni dei lavoratori migranti della città.
Molti hongkonghesi, che lo sappiano o meno esplicitamente, hanno sempre immaginato l’ideale della democrazia come avente molte barriere all’ingresso.
Da un lato, questo è il risultato della limitazione dell’immaginazione politica indotta dall’eredità del colonialismo, che il PCC ha voluto preservare. Dall’altro, il colonialismo funziona in modo diverso nei vari ambienti e alcuni soggetti coloniali possono assumere le caratteristiche del loro padrone.
Come scrive lo studioso Law Wing-sang (羅永生), il potere coloniale non è solo “uno strumento per il dominio volontario dei colonizzatori sui colonizzati“, ma è qualcosa che può “esistere e operare come una forza impersonale attraverso una molteplicità di siti e canali, attraverso i quali forze impersonali possono ancora resistere in assenza di un colonizzatore distinguibile”.
Ciò che la legge chiama “potere coloniale collaborativo” è sempre stata alla base della politica di Hong Kong, in cui gli sviluppi coloniali hanno operato come una rete ibrida di relazioni che coinvolgono sia gli hongkonghesi locali, in particolare la classe borghese, sia i loro padroni britannici.
Il successo di questi esponenti locali nel perfezionare il sistema britannico, per così dire, non è disapprovato, ma un segno che l’assimilazione nell’identità coloniale è ancora desiderabile, fintanto che si può mantenere una rispettabile facciata di libertà.
Questa complessa eredità crea un paradosso centrale nella Hong Kong post-consegna [alla RPC]: i suoi cittadini sono in grado di rielaborare la maggior parte dell’eredità dello sfruttamento del colonialismo come semplice colonialismo cinese, mentre il colonialismo occidentale viene destrutturato come un sistema fantasma di significanti che costruisce retroattivamente un migliore passato o promette un futuro democratico rispetto alla situazione attuale della città.
Ma perché e come siamo arrivati a desiderare il veleno stesso come nostro antidoto?
Struttura e sentimento coloniale
Un aspetto comune che ricordo, crescendo ad Hong-Kong, è la reazione impulsiva di rifiuto verso i Cinesi continentali, le minoranze etniche e i neri – con questi ultimi molti hongkonghesi non hanno mai interagito.
Lo vedevo nella mia famiglia, nei piccoli gesti e negli sguardi sul minibus, nelle scomode espressioni di disgusto quando si sentiva qualcuno parlare il mandarino, e anche in me stesso. È un sentimento sovradeterminato, pieno di xenofobia, paura, superiorità e di difensiva.
Molti la giustificano come una “struttura di sentimento” (a structure of feeling), attribuendola a una critica ai capitalisti cinesi e ad altri nuovi ricchi che destituiscono la classe popolare, le imprese e quartieri locali, o almeno la considerano come una risposta perfettamente legittima alla cancellazione invasiva della propria cultura locale.
Ma la verità scomoda, una di quelle che gli orgogliosi di destra sono più proni ad ammettere apertamente rispetto ad altri manifestanti mainstream, è la profonda, radicata convinzione che gli hongkonghesi sono meglio degli altri, grazie alla nostra vicinanza alla cultura e ai valori occidentali.
Questo è rafforzato da una serie di miti che vogliamo immaginare siano veri, che cioè l’eredità del colonialismo britannico non è poi tanto male. È facile aggrapparsi ai simboli superficiali delle illuminate e venerate democrazie occidentali, ma è difficile accettare il fatto che la nostra oppressione è radicata nella perpetuazione e nel rafforzamento, da parte del PCC, dell’infrastruttura capitalista che è stata originariamente creata dagli stessi colonizzatori occidentali.
E questo, per certi versi, è vero. Molti di noi a Hong Kong hanno tratto vantaggio dall’eredità del colonialismo. Anche quando alcuni di quei privilegi svaniscono, ci aggrappiamo a quelli che possono darci beneficio, modellando la nostra liberazione sull’iconografia e sui miti dei salvatori bianchi.
Il fatto che molti hongkonghesi non abbiano un accesso concreto – sul campo – alla politica americana non tiene conto della questione più profonda, spinta all’estremo logico dagli hongkonghesi pro-Trump, che molti hongkonghesi semplicemente non vogliono imparare, non vogliono confrontarsi con la realtà, che l’erba non è affatto più verde dall’altro lato.
La prevalenza di narrazioni del tipo di Breitbart e Fox News a Hong Kong forniscono soluzioni facili per persone che non vogliono affrontare le contraddizioni e i privilegi della società di Hong Kong. E la reazione di gran parte dei liberali hongkonghesi – paralisi e shock – ci costringe a fare i conti con la domanda che molti evitano di chiedere: Che tipo di liberazione vogliamo davvero per Hong Kong?
Il movimento Black lives matters
Le proteste negli Stati Uniti di questa estate, in molti modi, hanno costretto gli hongkonghesi a fare i conti con questa questione di liberazione. Infuriato non solo contro il regime di estrema destra di Trump, ma anche contro l’establishment liberale di lunga data, il movimento Black lives matter ha creato un raro momento di riflessione ideologica per gli hongkonghesi.
Per la prima volta, liberali e centristi hanno dovuto fare i conti con il fatto che il paese e il sistema democratico che hanno spesso idealizzato contenesse profondi problemi sistemici, a cui i manifestanti americani hanno dovuto resistere con la stessa forza e le stesse tattiche che essi stessi hanno adottato a Hong Kong, e che dovremmo tutti essere solidali.
Ma questa resa dei conti è stata accompagnata dal latente razzismo di molte parti della società di Hong Kong nei confronti dei neri. La somiglianza, non la differenza, tra le proteste è stata in realtà il fattore scatenante di tale resa dei conti: alcuni hongkonghesi, nonostante la loro disordinata e caotica lotta per la democrazia, hanno tentato in maniera aggressiva di prendere le distanze da un movimento che consideravano fondamentalmente illegittimo e incivile.
Le proteste statunitensi mettono in luce le potenzialità anticapitaliste nel movimento di Hong Kong, costringendolo di fronte al bivio fra abbracciare il cambiamento trasformativo di sistema e ritirarsi da esso in ultima istanza. La lotta dei neri ha sempre messo a nudo con violenza le contraddizioni del capitalismo. Credo che molti hongkonghesi possano percepirlo, anche senza possedere la storia, l’educazione politica e il linguaggio per spiegarsi il perché.
L’ansia degli hongkonghesi verso Black lives matters è dovuto al fatto che quest’ultimo incarna un radicalismo contro un sistema globale di disuguaglianza che molti hongkonghesi sanno, nel profondo, di non essere disposti a sfidare realmente.
Affrontarlo richiederebbe essere alle prese con il riconoscimento che il sistema che li circonda è profondamente ingiusto, a tal punto che concentrarsi strettamente sulla lotta contro l’autoritarismo cinese può solo iniziare a disvelare tale ingiustizia. Il nostro concentrarci semplicemente sulle “Cinque Richieste” non è solo dovuto al fatto che la repressione del PCC non ci dà lo spazio per riflettere più a fondo sulle nostre differenze ideologiche, bensì è motivato dal fatto che quelle richieste rappresentano il punto più avanzato, la visione concreta reale, che molti hongkonghesi sono disposti a prendere in considerazione.
È solo una democrazia formale, non reale.
Nativismo e l’eredità coloniale
Ventus Lau (劉 頴 匡), un attivista locale, ha detto ad alta voce una cosa tranquilla per molti hongkonghesi quando ha proclamato che “il secondo giorno dell’indipendenza di Hong Kong, tutti gli stili di vita e le abitudini del popolo di Hong Kong rimarranno invariati“. Da un anno il movimento di protesta esprime il proprio disinteresse ad affrontare una visione politica concreta perché ha spesso affermato che, con la crescente repressione da parte dell’autoritaria Cina, non c’è spazio per pensarci. La rivoluzione deve precedere ogni concreta immaginazione del futuro dopo.
C’è del vero in questo, ma sospetto che sia lo sia più perché molti simpatizzano con la visione profondamente conservatrice di Lau. Non c’è spazio per re-immaginare le fondamenta di come viene gestita Hong Kong perché per molti non ce n’è bisogno.
Il sentimento di Lau suggerisce che alcuni ammetterebbero che il governo di Hong Kong del PCC non è poi così male, solo che gli hongkonghesi, e non i cinesi, dovrebbero invece guidare questo sistema oppressivo.
La città sta bene com’è stata, se solo le persone potessero votare e esprimere opinioni dissenzienti. Anche se possiamo vedere tramite gli Stati Uniti che tali condizioni, senza una corretta resa dei conti con le nostre questioni sistemiche fondamentali, servirebbero solo come un altro strumento di oppressione.
Credono che l’incapacità fondamentale delle persone di determinare veramente le proprie condizioni materiali sia una parte inevitabile della società umana, e solo una certa forma di autoritarismo dovrebbe essere contrastata.
Questa mentalità è il fondamento della filosofia nativista di Hong Kong, che si basa su sentimenti di superiorità, eccezionalità, esclusivismo e altre eredità del colonialismo occidentale. Questo sentimento ha goduto di popolarità anche prima del movimento degli ombrelli.
Il primo discorso di destra di Horace Chin Wan (陳雲) sulla teoria delle città-stato di Hong Kong è stato per anni un best seller nelle librerie di Hong Kong. I suoi quadri continuano ad essere promossi da altri localisti di destra come Lewis Loud (盧斯達) e Chip Tsao (陶 傑), tra gli altri editorialisti dell’Apple Daily, tra i poster del forum LIHKG e tra gli altri KOL (key opinion leaders – principali opinion leader). Da Ray Wong Toi-yeung (黃 台 仰) ad Andy Chan Ho-tin (陳浩 天), hanno contribuito a sabotare l’Unione studentesca di Hong Kong dall’interno dopo la rivoluzione degli ombrelli, e molti hanno riconfezionato la loro retorica come “non ideologica” per guadagnare terreno nel movimento dell’anno scorso.
Queste persone diffondono regolarmente una retorica discriminatoria nei confronti delle donne e delle minoranze, sposando un tono spiritoso e controverso per rendere appetibile al pubblico di Hong Kong quella politica profondamente reazionaria.
Le forze di destra sono abbastanza disorganizzate, ma questo problema di organizzazione è endemico nella società di Hong Kong. Vale a dire che non sono disorganizzati perché di destra, ma si sono rivelati pericolosi proprio perché non sono organizzati.
In realtà, le loro idee hanno ottenuto una grande diffusione, attirando un seguito devoto. La loro politica escludente improntata sulla rabbia, in molti modi, ha alimentato le reazioni spontanee di discriminazione verso i cinesi continentali negli ultimi anni, spingendo i localisti ad adottare tattiche militari senza una chiara direzione politica.
Questa è la logica dietro laamchau (攬 炒): un nichilismo populista nel senso peggiore, in cui l’ossessione di definire l’identità di Hong Kong attraverso la divisione è feticizzata come la prassi principale e come visione ideologica, piuttosto che pensare in termini concreti alla liberazione per Hong Kong.
Questa valorizzazione dell’ “identità di Hong Kong” consente persino interpretazioni liberali che sono funzionalmente indistinte dalle componenti nativiste e xenofobe. Il “nazionalismo civico” dell’attivista di Hong Kong Brian Leung (梁繼平), nel contesto di Hong Kong, si basa direttamente sulle nozioni occidentali di cittadinanza, elogiando il sistema americano di richiedere ai nuovi immigrati di “comprendere la lingua, la storia e i valori politici locali“.
Il modo semplice in cui Leung può applicare questa nozione di cittadinanza esclusivista ad Hong Kong rivela la continuità tra il ruolo privilegiato dell’identità di Hong Kong e quello dell’identità occidentale. Nella migliore delle ipotesi, i continentali, gli asiatici del sud-est e altri possono essere considerati hongkonghesi solo se “capiscono” la nostra cultura.
Questo liberalismo razziale è rappresentato dall’accoglienza tradizionale di persone come Vivek Mahbubani, un comico di origine indiana, la cui fluente conoscenza del cantonese e la familiarità con la cultura locale gli è valsa rispetto e applausi a una manifestazione etnicamente inclusiva presso le Chungking Mansions, lo scorso anno.
Nel peggiore dei casi, la lotta di Hong Kong per la “democrazia” manifesta solo un impulso a controllare e definire l’identità della città contro i lavoratori cinesi o del sud-est asiatico, non assimilati.
Sebbene i sostenitori del MAGA (Make America Great Again) di Hong Kong e le loro controparti bianche non siano riducibili l’uno all’altro, oserei dire che la loro somiglianza è stata sottovalutata. Gli hongkonghesi possono soffrire degli effetti oppressivi del colonialismo bianco, e, nel contempo beneficiarne ed assumerne le caratteristiche in virtù del loro posto nell’apparato coloniale.
Queste scuse non reggono, però, soprattutto visto che il movimento ha trascorso un anno a mobilitarsi per raccogliere sostegno sia dallo Stato che dalla società degli Stati Uniti. Il turbolento anno di oppressione e l’attuale condizione coloniale di Hong Kong non scusa miracolosamente coloro che in città vendono disinformazione di estrema destra, o coloro che sostengono di ignorare gli affari interni degli Stati Uniti, cioè coloro che “non sanno niente”. L’ignoranza, in poche parole, è un privilegio.
Per gli hongkonghesi della diaspora, che condividono lo spazio di milioni di americani, soprattutto non bianchi, e che soffrono per gli anni di abusi e oppressione dell’amministrazione Trump, è assolutamente imperdonabile rimanere ignoranti.
Ma voglio sottolineare che tale ignoranza è di per sé una manifestazione organica del brutto privilegio razzista nel cuore della società civile di Hong Kong, ancor prima che possa essere identificato come tale. Deriva dal periodo coloniale britannico e dal passaggio di consegne, a quella sensazione iniziale di confusione e disgusto di dover essere svincolati dall’Occidente, almeno in un senso superficiale, e riconciliati con un’identità Han che siamo stati abituati a guardare dall’alto in basso (un’identità che da allora ha assunto i suoi tratti coloniali e sciovinisti).
Che il PCC abbia mantenuto violentemente la base neoliberale e coloniale imposta alla città dagli inglesi, comprese le infrastrutture della polizia di Hong Kong, almeno fino allo scorso anno, è stato generalmente accettato dalla parte principale della società. Ma questo nuovo senso di dis-identificazione con l’Occidente, nonostante sia sempre stato alienato come sudditi coloniali, non è mai stato accettato.
Di fronte alla repressione di Pechino, Trump ha dato un’espressione a questa ansia repressa: gli Stati Uniti imperialisti diventano non solo un ultimo disperato tentativo di raccogliere sostegno straniero, ma proprio la risposta che alcuni vogliono per i mali di Hong Kong. L’espressione di un desiderio aperto di rafforzare il nostro privilegio e di voltare le spalle volontariamente a come i lavoratori della Cina continentale, le minoranze etniche del sud-est asiatico, i neri sono stati sistematicamente oppressi da un sistema di disuguaglianza globalmente condiviso.
È un desiderio di aggrapparsi alla parte dell’identità di Hong Kong che vede sé stessa egoisticamente come migliore degli altri – un’appropriazione diretta del modo di operare del colonialismo bianco.
Mentre c’è molto che può essere cambiato con l’educazione e l’organizzazione politica, gli hongkonghesi devono affrontare il fatto che molti di noi non sono disposti ad avere a che fare con una realtà che sfida il nostro senso di superiorità ed eccezionalità. Con l’ascesa degli hongkonghesi pro-Trump, quello che l’anarchico di Hong Kong Ahkok Chun-kwok Wong descrive come “l’odio razziale nascosto nel movimento sociale di Hong Kong” non è stato sminuito dall’anno di lotta della città, ma è palesemente venuto allo scoperto e si è approfondito.
Difficili verità
La storia che vogliamo raccontarci da soli è che quanto accaduto in questo ciclo elettorale è semplicemente un prodotto di disinformazione e ignoranza senza colpa; o che i sostenitori di Trump sono in minoranza; o che sostenere Trump sia accettabile, nonostante i suoi difetti, perché giova alla nostra città.
Insisto sul fatto che non solo questi elementi sono imperdonabili, ma che il loro aspetto e la loro tolleranza da parte del nostro movimento rivelano un problema più profondo nel modo in cui immaginiamo la nostra strada verso la liberazione.
No, non è un privilegio soffermarsi su questo problema di fronte alla repressione incessante di Pechino: la legittimazione degli elementi MAGA nel movimento di protesta significa che stiamo aiutando il PCC a scavare le nostre fosse.
Facendo appello a un odiato buffone di estrema destra, disprezzato dalla maggioranza dei cittadini del mondo, gli hongkonghesi pro-Trump stanno attivamente delegittimando il movimento di protesta sul palcoscenico globale a causa di una figura di spicco, il cui sostegno per la città è incoerente nel migliore dei casi e inefficace nel peggiore.
Consentendo una diffusa privazione dei diritti degli elettori in un sistema elettorale già razzista, togliendo fondi ai servizi pubblici di base e promuovendo la retorica razzista, Trump minaccia anche il tipo di democrazia formale molto limitata che i liberali e persino alcuni conservatori hanno a cuore.
Ma il problema più grande è questo: che il nostro movimento cosiddetto “senza leader” e “non ideologico” ha di fatto favorito la crescita di questo ecosistema di estrema destra. Il rifiuto dogmatico di discutere l’ideologia genera e pone le condizioni per il sorgere di un discorso di estrema destra tra i localisti specializzati in disinformazione e intolleranza, non diversamente dalle tattiche del PCC.
Non è un caso che la convinzione di poter mettere in scena una politica al di sopra delle complesse particolarità ideologiche – occupandosi dell’ingiustizia sistemica, dei margini delle nostre comunità e della nostra stessa complicità – è il pane quotidiano del suprematismo bianco, che la destra di Hong Kong incarna nella sua forma estrema.
La controargomentazione che “non tutti gli hongkonghesi sostengono Trump” non è pertinente: la realtà è che ciascun sostenitore di Trump è uno di troppo, figuriamoci il 36% degli intervistati nel citato sondaggio YouGov e il 55% degli americani di Hong Kong intervistati.
Da allora le loro chiassose buffonate sono diventate egemoniche nel discorso politico mainstream. La verità è che abbiamo permesso che queste opinioni venissero normalizzate nel dibattito fra differenti opinioni, e questa da sola è un’accusa contro il movimento nel suo insieme.
Una cosa è evitare di discutere questioni sistemiche e differenze ideologiche reali a Hong Kong per concentrarsi strategicamente sulla lotta per ciò che possiamo realisticamente ottenere per prima; un’altra cosa è vedere effettivamente questa elusione come un obiettivo finale, accontentarsi della semplice facciata della democrazia senza la democrazia stessa.
Se un anno di “no big stage” ha infatti portato all’ampliamento della piattaforma dell’estrema destra, dobbiamo chiederci seriamente cosa sia andato male nella visione del processo democratico del movimento. Questo non legittima la nostra oppressione da parte di Pechino, ma delegittima il nostro movimento per la democrazia.
Con le leggi sulla sicurezza nazionale e la sconfitta della campagna Trump, gli hongkonghesi sono di fronte ad una resa dei conti. Esamineremo finalmente in modo critico il mito dell’eccezionalismo che ci limita e continua ad essere un giocattolo nelle mani dei nostri oppressori?
La scelta è tra un movimento pratico verso la vera democrazia, che può interrogarsi sui limiti della democrazia liberale e schierarsi in solidarietà con altre lotte di massa contro un sistema di oppressione internazionalmente connesso, o un ciclo infinito di schiavitù, manovrando dolorosamente noi stessi tra diverse forme di oppressione.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
giancarlo staffolani
la questione di hong Kong non è una questione di democrazia, ma di dell’eredità neocoloniale di una economia parassitaria e improduttiva con una “borghesia finanziaria compradora” e “ceti medi dipendenti connessi alla stessa base economica e ed ideologica. La “resa dei conti” non potrà essere indolore.
biagio cafeo
insomma …