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«Tempo di speranza»: liberare Ocalan

Abdullah Öcalan (chiamato Apo, zio, e Serok, salvatore) per milioni di kurdi è la speranza, l’ispirazione, la voce che guida nella difesa dell’identità e della vita. Ricordate le immagini della vittoria contro l’Isis? Alle spalle delle combattenti kurde che festeggiano la conquista di Raqqa l’ ultima roccaforte dello Sato Islamico, c’é un grande ritratto di Ocalan.

Oggi nelle rivolte scaturite dall’assassinio di Jina (Mahsa) Amini e che vanno ben oltre alla protesta contro l’hijab, sventolano bandiere con la sua immagine.

Dalla data del suo sequestro attivisti di tutto il mondo ne chiedono la liberazione. Il comitato Peace in Kurdistan fondato nel 1994, durante la guerra di annientamento contro il popolo kurdo, dall’attivista Lord Avebury e da Harold Pinter, Arthur Miller, John Berger, Noam Chomsky, nel 1999 diventa International Initiative for Abdullah Öcalan-Peace in Kurdistan e raccoglie una valanga di adesioni, così come la campagna Freedom for Ocalan dei più importanti sindacati britannici.

Tre anni fa uno sciopero della fame coinvolse 3 mila persone, e 9 continuarono fino alla morte. Nel settembre scorso il 30° festival Internazionale della Cultura Kurda a Landgraaf in Olanda era dedicato al tema della liberazione di Serok Apo e a Roma migliaia di persone assistevano al concerto a lui dedicato.

Il 14 settembre scorso a Bruxelles 350 avvocati di 22 paesi in 5 continenti hanno ufficialmente offerto di assumere la difesa di Öcalan a fianco dei colleghi kurdi. Nel Nord est della Siria 691 avocati hanno sottoscritto un appello ed è partita in Europa la campagna “1.000 avvocati per Abdullah Öcalan”.

Mistero sulle condizioni del leader kurdo

Abdullah Ocalan, fondatore del Pkk- Partîya Kerkéren Kurdistan, storico e politologo, 73 anni, da 23 anni è imprigionato nel carcere di massima sicurezza sull’isola disabitata di Imrali, in assoluto isolamento con la condanna di ergastolo aggravato.

La sua situazione è definita “tortura continuativa” dalle Nazioni Unite e condannata dalle istituzioni europee. Era il solo detenuto a Imrali fino al 2015, quando nel carcere arrivarono Ömer Haya Konar, Hamili Yildirim, Aktas Veyşi, militanti del PKK. Le richieste di porre fine all’isolamento valgono anche per loro.

La sentenza 12 maggio 2005 della Convenzione Europea per i Diritti Umani (CEDU) condanna la Turchia per “ingiusto processo” e ne chiede la revisione. Un’altra nel 2014 condanna la Turchia per il reato di tortura e chiede la libertà condizionale.

Il Rapporto 2020 del Comitato Europeo Prevenzione Tortura (CPT) dichiara inaccettabile la condizione detentiva. Nell’ottobre 2020 l’Assemblea del Consiglio d’Europa chiede la fine dell’isolamento. Numerose le risoluzioni del Parlamento europeo.

Ma nessun provvedimento concreto si è mai profilato nei confronti di Ankara, che ignora sentenze e risoluzioni. Abbaglia e ferisce l’abisso tra l’impegno dei cittadini e l’inerzia complice dei governanti.

L’ultimo incontro con gli avvocati risale al 7 agosto 2019, con un intervallo di 8 anni dal 2011. La risposta alla sentenza CEDU del 2014 è arrivata il 26 agosto scorso: gli avvocati del governo turco escludono la libertà condizionale.

Secondo lo studio legale Asrin che tenacemente lo difende, Öcalan è illegittimamente privato del “Diritto alla Speranza”, il principio per cui ogni condannato ha il diritto di sperare in una commutazione della pena. Da 18 mesi di lui non si hanno notizie: l’ultimo contatto è un breve telefonata del fratello Mehmet, convocato allo scopo in Procura.

Nel novembre 1989 Abdullah Ocalan si era rifugiato a Roma, e per lui migliaia di kurdi erano arrivati da ogni angolo del mondo. Piazza Celimontana era diventata piazza Kurdistan, in una vibrante scenografia di musica, danze, colori e bandiere.

Il tribunale di Roma 1l 1° ottobre 1999 concedeva al leader l’asilo politico, ma troppo tardi: il nostro governo – premier era D’Alema – lo aveva costretto ad andarsene. “Abbiamo passato un mucchio di tempo a lavorare con Italia, Germania e Turchia per trovare un modo creativo di consegnarlo alla giustizia”, scriveva il New York Times citando un “alto funzionario del governo Usa”.

Un complotto internazionale fece approdare il lader kurdo a Nairobi dove 15 febbraio 1999 fu catturato da un commando turco. Il suo sequestro fu “Un affare nel cuore del triangolo Ankara-Washington-Gerusalemme”, come titolava Le Monde il 18 febbraio, dimenticando però i servizi del Kenya, il cui contributo fu rivendicato dal presidente Daniel Arap Moi.

La condanna a morte venne commutata in ergastolo aggravato perché la Turchia, intenzionata a far parte della Ue, sospese l’applicazione della pena capitale.

Nella resistenza del PKK le ragioni dell’accanimento

Negli anni Novanta Ankara si dedica a una guerra di annientamento della popolazione kurda in Turchia, che finanzia con un massiccio narcotraffico verso il mercato europeo. Nelle provincie kurde vige la legge marziale. Le sede delle istituzioni kurde sono distrutte. Nelle strade gli squadroni della morte uccidono politici, scrittori, giornalisti, attivisti per i diritti umani kurdi e turchi. In carcere i detenuti muoiono sottoposti ai più terribili trattamenti.

Amnesty International documenta torture e violenze sessuali su uomini, donne, bambini. Nei villaggi, stragi e atrocità irriferibili. Migliaia i villaggi distrutti, due milioni di persone condannate a morire di stenti. Ankara vieta l’accesso alla organizzazioni umanitarie: si tratta di “profughi interni”. In Turchia i giornali indipendenti denunciano l’orrore, l’élite intellettuale turca si ribella affrontando processi e carcere.

Il sociologo turco Ismail Besikci rifiuta onorificenze e premi per il suo impegno nella difesa dei diritti umani perché provengono da organizzazioni “i cui governi armano e finanziano una Turchia colpevole della distruzione del popolo kurdo”.

Nelson Mandela rifiuta il Premio per la Pace Atatürk 1992. Harold Pinter scrive: “Oggi la dignità e l’umanità del mondo sono rappresentate dalla resistenza del Pkk e dal suo leader Abdullah Öcalan” .

Contro il popolo kurdo le armi del Pentagono

La guerra è condotta all’unisono con gli Usa del Presidente Clinton, che riesce ad aggirare il divieto di armare paesi che violano i diritti umani. Sulla rivista statunitense The Atomic Scientists, marzo-aprile 1999, vol. 55. N. 2 nel saggio La guerra della Turchia contro i kurdi,  Kevin McKiernan scrive: “Il presidente Clinton ha continuato e intensificato il sostegno alla distruzione del popolo kurdo in Turchia. a guerra in Turchia è l’unico esempio al mondo di un amplissimo uso di armamenti degli Stati Uniti da parte di forze non americane”.

L’autore cita Bill Hartung, del World Policy Institute: “Non riesco a pensare a nessun altro esempio in cui l’arsenale americano abbia avuto un utilizzo così intenso e concentrato”.

E continua: “In 15 anni di combattimenti in Turchia sono andate perdute circa 40 mila vite umane, più che nei conflitti della West Bank e del Nord Irlanda messi insieme. Nell’ultimo decennio l’esercito turco ha raso al suolo, incendiato, o evacuato con la forza più di 3 mila villaggi kurdi. Gran parte delle distruzioni in Turchia avvenne tra il 1992 e il 1995, durante il primo mandato dell’amministrazione Clinton. Nel ‘95 l’amministrazione riconobbe che gli armamenti americani erano stati usati dal governo turco in operazioni militari interne ‘durante le quali sono avvenute violazioni dei diritti umani“.

In un rapporto ordinato dal Congresso, il Dipartimento di Stato aveva ammesso che gli abusi erano stati compiuti anche con l’uso di elicotteri Cobra, di blindati e di cacciabombardieri F 16, tutti provenienti dagli Stati Uniti. In molti casi, interi villaggi kurdi erano stati cancellati dall’aviazione (…)

Il nostro governo aveva dovuto ammettere che la politica turca aveva costretto più di due milioni di kurdi a fuggire dalle loro case.” “L’assistenza militare alla Turchia – continua Mc Kiernan – ha incluso perfino l’uso di soldati americani. L’anno scorso, secondo il Washington Post, una squadra per le operazioni speciali ha compiuto la sua prima missione in Turchia per addestrare i ‘Commando turchi di montagna’, unità la cui funzione è di combattere i guerriglieri kurdi. La Turchia beneficia inoltre dell’International Military Education and Traing Program del Pentagono. Grazie a questo programma, dal 1984, quando cominciò l’insurrezione del Pkk, al 1997, sono stati addestrati 2.500 ufficiali turchi (…)

Un diplomatico britannico nel corso della gigantesca operazione militare “Acciaio” lanciata contro i kurdi nel marzo ‘95 confidò al Turkish Daily News che la Turchia si era avvalsa di strumentazioni Nato, come gli aerei rilevatori Awacs, e risulta che siano utilizzati anche i dati satellitari per individuare le basi della guerriglia. Anche Italia e Germania inviarono armamenti ad Ankara.

Alla ferocia della guerra di annientamento della popolazione kurda e del suo territorio si oppose la resistenza del PKK. Öcalan paga nell’isolamento di Imrali la sopravvivenza del popolo kurdo.

A lui non si perdona di aver fatto rivivere l’orgoglio dell’identità e dei valori per i quali oggi il Kurdistan esiste e ancora resiste. Resiste e brucia nelle ferite dei bambini colpiti dalle armi chimiche di Erdogan. Resiste e vive nel ricordo delle donne protagoniste della vittoria sull’Isis, assassinate dai droni turchi.

Resiste nel cuore delle 500 mila famiglie di Afrin, in Siria, spogliate di tutto dagli alleati islamisti di Ankara, costrette a lasciare le loro case per fuggire in improvvisati campi profughi.

Resiste in una speranza di vita e di pace. “Tempo di speranza” è il nome della campagna per la libertà di Ocalan.

* da La Bottega del Barbieri

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2 Commenti


  • Pasquale

    Ha fornito al suo popolo gli strumenti per potersi salvare e intraprendere la Resistenza per costruire un futuro. Per questo sta pagando. Complice anche il governo italiano di allora.


  • Gianni Sartori

    INDIGNAZIONE CURDA A  DUSSELDORF

    Gianni Sartori

    Ho sempre pensato che alcune canzoni di Pino Masi (quello di Lotta Continua) abbiamo rimediato in parte alle carenze scolastiche in materia di geografia.

    Pensate solo a:

    “…da Burgos a Stettino, ed anche qui da noi, da Avola a Torino, da Orgosolo a Marghera, da Battipaglia a Reggio…”.

    Anche chi non conosceva già cos’era accaduto in quel tempo a Burgos (processo ai baschi e condanne a morte, poi sospese, nel 1970), a Stettino (le lotte degli operai polacchi contro il regime di Gomulka), a Orgosolo (lotte di contadini e pastori, a sfondo anche indipendentista, contro la militarizzazione della Sardegna)…etc … aveva modo di imparare, di informarsi.

    Idem per la sua versione dell’Internazionale:

    “Senza patria, senza legge e nome,

    Da Battipaglia a Düsseldorf,

    Siamo la tendenza generale,

    Siamo la rivoluzion”.

    Ovviamente mi ricordo ancora bene (avendo anche distribuito i volantini di protesta e aver partecipato alle manifestazioni) dei fatti di Avola (2 dicembre 1968, morte di Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona) e di Battipaglia (9 aprile1969, morte di Teresa Ricciardi e Carmine Citro).
    Due eccidi rimasti indissolubilmente collegati nella memoria, sia “storica” che personale.

    Al momento mi sfugge invece, dovrò controllare, cos’era caduto all’epoca a Düsseldorf.

    Ma ecco che il nome della città tedesca riemerge prepotentemente, torna  a far parlare di sé, stavolta per una grande manifestazione contro l’impiego di armi chimiche da parte della Turchia.

    Alla manifestazione del 12 novembre 2022 hanno partecipato circa 25mila persone (non solo curdi). Con lo slogan “#YourSilenceKills”  hanno richiesto alla comunità internazionale di porre termine a questi crimini di guerra contro la popolazione curda.
    Indetta dalle Confederazione delle associazioni curde di Germania (KON-MED), ha visto convergere su Düsseldorf migliaia di persone provenienti sia da ogni parte della Germania, sia dai Paesi limitrofi.
    Verso le 10 del mattino i manifestanti iniziavano a concentrarsi in due punti diversi della città e verso le 12 i due cortei avevano cominciato a sfilare pacificamente. Molti indossavano la “tuta bianca” per esprimere efficacemente a cosa si opponevano.
    Molti inoltre inalberavano cartelli con le foto dei guerriglieri uccisi dalle armi chimiche.
    Tra le scritte sugli striscioni spiccavano in particolare:
    “L’attacco contro il Kurdistan è un attacco contro i nostri valori”, “Fermate il sostegno tedesco alla Turchia”, “Lo Stato turco assassina i Curdi con le armi chimiche – Il vostro silenzio uccide”.
    Rivolgendosi alla folla presente la co-presidente di KON-MED, Zübeyde Zümrüt, non si è si è limitata a criticare, definendola “scandalosa”, l’indifferenza mostrata finora da Berlino (recentemente un portavoce governativo ha dichiarato di non vedere alcuna necessità di aprire un’inchiesta internazionale).
    Ha infatti condannato quello che considera un vero e proprio coinvolgimento, una buona dose di corresponsabilità.
    Affermando che “il governo tedesco sostiene politicamente, finanziariamente e militarmente il regime di Ankara”.
    E quindi, dal punto di vista dei curdi “è in parte responsabile”.
    Qualche riserva da parte mia soltanto su “in parte”.

    Sulla questione è intervenuta l’Associazione dei medici contro la guerra nucleare (IPPNW) che recentemente (in settembre) aveva condotto un’inchiesta condotta (se pur tra mille difficoltà) nel Nord dell’Iraq, nei territori curdi sottoposti agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turchi.
    Nel rapporto di IPPNW pubblicato in ottobre, gran parte delle accuse mosse dai curdi hanno trovato riscontro e comunque viene confermata la necessità di una immediata inchiesta internazionale.

    Gianni Sartori

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