“Negli ultimi anni il Brasile è tornato ad essere uno dei paesi più diseguali al mondo. Era da tempo che non si vedeva nelle strade un simile abbandono e sgomento. Madri che scavano nella spazzatura in cerca di cibo per i propri figli. Intere famiglie dormono fuori, affrontando il freddo, la pioggia e la paura. Bambini che vendono caramelle o chiedono l’elemosina quando dovrebbero essere a scuola, vivendo pienamente l’infanzia a cui hanno diritto. Lavoratori disoccupati che espongono cartelli di cartone ai semafori con la frase che mette tutti in imbarazzo: ‘vi prego aiutatemi’”
Luiz Inȧcio Lula da Silva
Il primo gennaio di quest’anno si è insediato il nuovo presidente del Brasile ed il suo esecutivo. Lula ha 77 anni ed è al suo terzo mandato.
Luiz Inȧcio Lula da Silva è nato nel 1945 in una delle zone più povere del Brasile, per trasferirsi da bambino a San Paolo con la sua famiglia.
Metalmeccanico e sindacalista, guidò diversi scioperi durante la dittatura e fu uno dei fondatori del PT nel 1980, nonché uno dei principali leader del movimento – Diretas Jȧ – che chiedeva le elezioni democratiche.
Per tre volte fu candidato alle presidenziali (1989, ’94 e ’98), tre volte sconfitto.
Si insediò per la prima volta esattamente 20 anni fa, nel 2003, al suo quarto tentativo di conquistare la presidenza del paese, con un risultato storico, per venire poi riconfermato nel 2006, e concludere il suo secondo mandato con un consenso per il proprio operato espresso da più di 3/4 della popolazione.
Nel 2003, a differenza di oggi in cui è sostenuto da una ampia ed eterogenea coalizione, fu un successo del PT. Vent’anni fa, ottenne al secondo turno delle presidenziali, ben il 61% delle preferenze, distanziando il suo sfidante – José Sierra – di 23 punti percentuali. Risultò il più votato in tutti gli Stati – il Brasile è uno Stato federale – eccetto Alagoas.
Lo scorso anno il responso è stato assai diverso, con una sorta di “testa a testa” in cui ha prevalso sul presidente uscente Bolsonaro di appena 1,8 punti percentuali, totalizzando 58 milioni di voti e vincendo – o stravincendo – in tutti gli Stati del Sud.
Fino alla cerimonia di insediamento si è temuto un colpo di coda da parte dello zoccolo duro dei bolsonaristi, che dalla chiusura delle urne hanno dimostrato di non volere mollare la presa, nonostante il responso delle urne ed il silenzio del proprio leader.
Si sono accampati, giungendo da tutto il paese e con intenzioni piuttosto bellicose, come dimostra il tentato attentato di George Washington (!) che voleva provocare una strage in un aeroporto prima dell’insediamento presidenziale.
Un risultato straordinario, quello di Lula, che circa 3 anni fa era ancora detenuto ingiustamente, comunque scontando 580 giorni di carcere prima di essere scagionato – anche se per un “vizio di forma” – dai reati di corruzione, potendosi così ricandidare alla testa del Paese e far fallire il colpo di stato giudiziario di Sergio Moro e soci (uno degli episodi maggiori del lawfare patrocinato dagli Stati Uniti).
L’ex presidente Bolsonaro ha lasciato il paese per gli Usa, rinunciando volontariamente alla cerimonia di consegna della fascia presidenziale al suo sfidante, di fatto delegittimando il passaggio fisiologico dei poteri.
Nonostante Bolsonaro sia, per ora, uscito di scena, il bolsonarismo rimarrà un fatto politico rilevante nel Brasile contemporaneo, dove ha saputo agglutinare attorno a quel 8-10% di classe medio-alta bianca – agro-business, gerarchie militari e delle forze dell’ordine, figure di spicco del cattolicesimo conservatore e soprattutto delle varie chiese evangeliche – un blocco sociale rilevante, anche grazie all’accorta politica clientelare messa in piedi grazie anche al “budget segreto” – il corrispettivo di 8 miliardi di dollari solo nell’ultimo anno – e a qualche tardiva misura di contrasto alla miseria crescente, sotto elezioni.
Il bolsonarismo ha offerto una narrazione di sé e del nemico da combattere piuttosto convincente, nonostante le immani distruzioni che si è lasciato alle spalle ed una gestione criminale di cui probabilmente dovrà rispondere.
Lula era consapevole sia della posta in gioco per il paese e l’ha ribadito nel suo discorso di fronte al Congresso, indicando il pericolo reale nell’“autoritarismo di aspirazione fascista”. Ma sa anche che deve sanare una frattura nel suo blocco sociale di riferimento: quei 30 milioni di working poor che hanno votato per Bolsonaro.
Nella cerimonia ufficiale il primo gennaio al Palacio del Planalto ha affermato infatti: “governerò per chi mi ha votato e per chi non mi ha votato”.
Lula conta di rifarsi allo spirito della Costituzione di fine Anni Ottanta, per cui considera gli anni di Bolsonaro una parentesi che intende superare in netta discontinuità con il suo predecessore.
Il suo esecutivo, i cui nomi sono stati comunicati in due tranche, è composto da ben 37 ministri: un blocco di uomini e donne di fiducia sperimentata del PT, altri di ex avversari politici che hanno reso possibile la sua affermazione – come il vice-presidente Gerardo Alckimin o Simone Tebet – e di persone dall’alto profilo professionale o con una lunga esperienza di attivismo alle spalle in campi chiave, talvolta universalmente riconosciute nei loro campi.
L’esecutivo non ha però la maggioranza al Congresso, dominato dalla “palude” del centrao con cui dovrà sempre fare i conti: ha 183 deputati, con un quorum di 257 da raggiungere, su 513 membri, può contare su una trentina di senatori, arrivando – dicono gli esperti – ad averne dalla sua parte circa 45.
Lula ha espresso chiaramente quali saranno le sue priorità.
Risolvere la piaga della fame e della povertà – che erano stati i migliori successi dei suoi precedenti mandati -, regolamentare il commercio delle armi, mitigare la diseguaglianza, ripristinare il corso democratico, la tutela dell’ambiente, varare una nuova legislazione del lavoro, promuovere l’istruzione, combattere le discriminazioni, assicurare la libertà religiosa.
Si è subito messo al lavoro, revocando una decina di decreti firmati dall’ex presidente che andavano verso una politica di ulteriore privatizzazioni di comparti strategici in mano pubblica, ripristinando la Bolsa Familia per un sostegno economico alle famiglie più bisognose, amplificando le esenzioni per le imposte sui combustibili…
Già dai primi giorni del suo insediamento era chiarissima la sua intenzione di riavviare quel processo di integrazione continentale e di ripresa delle relazioni politico-diplomatiche che il suo predecessore aveva azzerato, e far riconquistare al Brasile il peso internazionale che aveva acquisito durante gli anni della sua precedente presidenza.
Se è vero che con la sua elezione il Brasile non è entrato in paradiso, è però senz’altro uscito dall’inferno. Lo attendono nuove sfide sia al suo interno che all’estero, in un contesto in cui il mondo multipolare sta diventando una realtà a tutti gli effetti, potrebbe diventarne un perno.
Come ha ben sintetizzato il portavoce del MST, J.P. Stedile, in una intervista del mese scorso, i compiti della sinistra in Brasile sono: “promuovere il lavoro di base, organizzare la lotta di massa, promuovere l’educazione politica, riprendere i processi culturali, non abbandonare la comunicazione di massa“.
La combinazione tra la mobilitazione permanente di massa organizzata dalla sinistra ed una oculata opera governativa nei confronti del blocco sociale e delle altre esperienze progressiste continentali – cioè la dialettica virtuosa tra potere costituente e potere costituito – è la formula per sconfiggere egemonicamente, e non solo elettoralmente, il bolsonarismo.
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