Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è iniziato il cammino d’Israele verso il suicidio: è iniziato il 4 novembre 1995, con l’assassinio di Rabin per mano di un ebreo estremista. Il mese prima eravamo al Vertice di Amman: le parole di Rabin e dei leader palestinesi lasciavano presagire compromessi risolutivi. Incontrai Rabin un’ultima volta: i suoi occhi di un azzurro intenso infondevano un senso di visione.
“La pace si negozia con i nemici – ripeteva con forza – e la faremo ad ogni costo”. Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola chiusero la prima porta verso la pace. Poi fu un seguito di occasioni sprecate.
Marzo 2002. Al Vertice della Lega Araba a Beirut ricordo il re saudita presentare un piano di pace impeccabile, accettato dall’intera Lega Araba. Ecco, finalmente ci siamo – pensavo io. Invece no, il governo d’Israele chiuse il piano in un cassetto. Gennaio 2006.
L’Autorità Palestinese indisse libere elezioni, a cui Hamas partecipò vincendole a Gaza (74 seggi contro 45 ad al-Fatah). Gli osservatori internazionali confermarono la regolarità delle elezioni, ma su pressione israeliana gli Usa e l’Ue non accettarono i risultati. Démocratie à la carte?
Luglio 2006. Nella guerra sul fronte israelo-libanese vidi Tsahal seminare di rovine e di morte mezzo Libano per eliminare Hezbollah e i suoi razzi. Oggi Hezbollah possiede missili (altro che katiusce!) con gittate in grado di colpire Israele dovunque.
2008 – 2015. Su Gaza piovvero nove valanghe di fuoco intese ad eliminare razzi, tunnel e capi di Hamas, al prezzo di migliaia di vittime civili, inclusi feriti e rifugiati in ospedali e scuole dell’Onu. Erano “centimazioni”, non decimazioni: il rapporto fra vittime palestinesi e israeliane fu di 1 a 100.
Quelle nove operazioni erano battezzate con nomi immaginifici: Arcobaleno – Giorni di Penitenza – Prime Piogge – Attacco Illuminante – Piogge d’Estate – Inverno Caldo – Piombo Fuso – Pilastro di Difesa – Margine di Protezione. Ora è arrivata la decima: operazione Spade di Ferro.
Hamas venne fondata nel 1987 da un gruppo di Fratelli Musulmani (con la collusione d’Israele al fine di indebolire Arafat). La loro guida spirituale e politica era Ahmed Yassin, capo carismatico costretto dalla paralisi su una sedia a rotelle.
Yassin aveva proposto fin dal 1993 delle tregue che portassero a concludere un vero armistizio senza rinunciare ai propri principi. Ma Israele le aveva sempre snobbate, sostenendo che erano solo “cortina fumogena”; e a sottolineare meglio il concetto, il 22 marzo 2004 un elicottero inviato sopra Gaza fulminò sulla sedia a rotelle Yassin con altri nove palestinesi all’uscita della moschea dopo la preghiera del tramonto.
Chi viaggia oggigiorno in Terrasanta non trova traccia dello spirito ideale dei kibbutz; incrocia piuttosto gruppi di ortodossi che ti squadrano con occhiate lampeggianti di fanatismo, e se cammini di sabato nei loro quartieri puoi beccarti anche qualche sassata.
Da oltre un decennio Netanyahu invita ebrei invasati ad occupare terre non loro, erige muri su muri, rende impraticabile la soluzione dei due Stati, umilia i palestinesi moderati… e lo stesso presidente Obama davanti al Congresso americano.
Al punto da indurre l’ex presidente Carter a intitolare “Apartheid” un suo libro di critica a Israele.
Identificare il popolo ebraico con lo Stato israeliano finisce per “giustificare” – in una logica uguale e contraria – il dilagare dell’antisemitismo in Europa e in America.
Memorabile lo scambio di battute fuori onda di Obama con Sarkozy al G20 di Cannes nel 2011: “Non ne posso più di Netanyahu, è un bugiardo!” aveva bisbigliato Sarkozy; e Obama di rimando: “Lo dici a me che devo trattare ogni giorno con lui?”.
I sionisti americani che vedono in Israele la realizzazione in terra delle profezie bibliche – tipi come il pastore John Hagee, faccia e stazza texana, che benediva i raid israeliani con prediche ispirate («L’umanità verrà giudicata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – potrebbero con pari fanatismo riabbracciare l’antisemitismo se un giorno si risvegliassero chiedendosi: possibile che un piccolo Stato straniero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo?
Non per niente Israele si guarda bene dall’associarsi agli altri 123 membri dell’Onu che hanno aderito alla Corte Penale Internazionale, dato che il suo obiettivo non è di accettare la sfida nei processi, bensì di star fuori dai processi (perciò Berlusconi faceva il tifo per Netanyahu).
L’occupazione dei Territori mette in pericolo la sicurezza stessa d’Israele, dal momento che il diritto internazionale autorizza a ribellarsi chi è sottoposto – come i palestinesi – ad occupazione militare condannata dall’Onu.
E chi persiste a giustificare l’impunità ad Israele sta in realtà scavandogli la fossa: l’ha capito da tempo l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, quando ha scongiurato di “salvare Israele da sé stesso”.
* da Africa ExPress. Giuseppe Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino. La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’e-book Anatomia di una guerra. Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.
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