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La guerra “allargata” di Netanyahu

Con l’attacco israeliano a Damasco è iniziata una nuova fase di destabilizzazione del Medio Oriente, dalla Siria al Libano e oltre, fortemente voluta da Tel Aviv ben prima del massacro di Hamas del 7 ottobre. Già l’8 agosto il ministro della Difesa Gallant avvertiva che «il Libano in caso di guerra rischiava di tornare all’età della pietra».

L’obiettivo di Israele e degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni non è mai cambiato, come ben spiega il Patto di Abramo: lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro.

Gli ultimi aiuti militari Usa a Tel Aviv, dicono le carte, sono stati concessi «per affrontare conflitti su più fronti». Basta leggere e guardare la mappa.

Israele oltre a occupare una gran parte dei territori palestinesi, si è impadronita delle alture siriane del Golan nel 1967 e di pezzi di territorio libanese. Se l’idea a Gaza è di espellere i palestinesi, ai suoi confini Israele punta a stabilire un sorta di nuova “fascia di sicurezza” e a piegare i regimi della regione.

E come sempre tutto quanto riguarda la “sicurezza” di Israele, implica necessariamente l’insicurezza degli altri e il loro annientamento, come dimostrano le dichiarazioni di Gallant e quanto avviene ogni giorno a Gaza dove le bombe israeliane hanno ucciso 7 persone che lavoravano per la Ong Usa World Central Kitchen.

L’orrore non ha mai fine e le giustificazioni israeliane appaiono prive di ogni credibilità quando si sta radendo al suolo un intero popolo.

In questo quadro, dove il conflitto in Ucraina appare sempre meno lontano dal Medio Oriente, anche il ritorno dell’Isis appare un evento inquietante.

Quando sono iniziate le primavere arabe nel 2011 e con la successiva avanzata dell’Isis, il peggiore nemico degli sciiti in Siria e in Iraq – oltre che in Libano – Tel Aviv ha pensato regolare i conti con i pasdaran iraniani e gli Hezbollah alleati di Assad e di Mosca.

La sconfitta del Califfato fermato dell’esercito di Assad con l’aiuto decisivo dei russi, dei pasdaran iraniani, degli Hezbollah sciiti e delle milizie curde alleate dell’Occidente, ha rallentato questi piani ma oggi il ritorno dell’Isis sulla scena con giganteschi attentati sia in Russia che in Iran costituisce per Israele un’altra un’opportunità da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti.

Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale.

Per fare la “sua” guerra Netanyahu è persino disposto a mettere a rischio il suo patto non scritto con Putin, che in questi anni non aveva mai protestato per i raid israeliani in Siria e in Libano, ovvero contro gli alleati stessi di Mosca.

Ma l’attacco israeliano contro un edificio dell’ambasciata dell’Iran a Damasco, in cui sono morte almeno 11 persone, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione (i cosiddetti Pasdaran) in Siria e Libano, rischia seriamente di far saltare qualunque possibilità di accordo, anche sottobanco.

Ed è esattamente quello che vogliono i vertici israeliani: mano libera contro i palestinesi e contro tutti gli altri. Netanyahu è sotto la pressione di una piazza a lui ostile che chiede un tregua, ma ha dalla sua parte i coloni e le proteste di migliaia di israeliani evacuati dai confini con il Libano nell’alta Galilea.

Israele sta alzando il tiro per innescare un altro conflitto. In Libano non colpisce più solo le aree intorno alla Linea Blu, dove è schierata l’Unifil con il contingente italiano, ma addirittura la valle di Baalbek che è nell’entroterra ed è più a nord.

La stessa escalation si sta verificando in Siria dove i raid israeliani qualche giorno fa avevano colpito Aleppo e adesso sono tornati di nuovo a prendere di mira Damasco.

Lo scopo di Tel Aviv è sempre quello della provocazione portata all’estremo limite: spingere Pasdaran iraniani e Hezbollah libanesi verso una reazione fuori luogo e non calcolata che possa legittimare Israele a lanciare un attacco contro il Libano e il regime di Teheran.

Con gli Stati Uniti che in questa tragedia coprono due ruoli contraddittori ma complementari nella loro assurdità. Uno è quello di mediatore: Washington sta trattando per Gaza e ha persino nominato un “inviato di pace” per il Libano che si chiama Amos Hochstein.

Una strana figura di paciere che ha servito nell’esercito israeliano e poi per le lobby di Washington. Un pompiere-piromane che esemplifica l’inaccettabile politica americana di appoggiare costantemente Israele con aiuti militari a tutto spiano.

Il tutto con la complicità degli europei che mandano armi a Tel Aviv, ma non hanno mai il coraggio di mettere una sanzione allo Stato ebraico.

Per Washington, in pieno anno elettorale, si tratta tra l’altro di un strategia assai pericolosa. Questo governo israeliano sta facendo di tutto sul fronte siriano e libanese per trascinare gli americani in un conflitto allargato che si può estendere all’Iran.

Ma per fare una guerra più grande di quella attuale ha bisogno probabilmente di un cambio alla Casa Bianca. Sono calcoli rischiosi e spregiudicati, ma ormai lo stato ebraico ci ha abituati a ogni cinismo.

* da il manifesto

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