L’asse franco-tedesco se la passa sempre peggio e quando Draghi fa le sue raccomandazioni, ormai, non si capisce più a chi si stia rivolgendo.
L’Unione Europea è stata infatti costruita – come logica dei trattati e come assetto istituzionale – in base alle indicazioni imposte dalla Germania e supportate dalla Francia. In assenza di leader forti in questi due paesi è difficile imporre agli altri 25 membri qualcosa senza doverlo contrattare.
E ora, sia a Berlino che a Parigi, tutto c’è meno che leader solidi. Anzi, il futuro prossimo promette figure ancora più fragili.
In Germania ieri Olaf Schoz ha raggiunto il suo obiettivo: essere sfiduciato e quindi obbligato alle dimissioni, in modo da aprire la strada a nuove elezioni. In pratica il contrario di quel che un primo ministro di solito cerca.
Un apparente paradosso che chiarisce bene lo stato confusionale della politica tedesca, trascinata in una guerra che ha distrutto gran parte del modello economico su cui aveva costruito la sua egemonia continentale: bassi salari interni, energia a basso costo grazie al gas russo, esportazioni a go-go vero Mosca e Pechino.
I sondaggi per ora mostrano una sostanziale tenuta del democristiani guidati da Friedrich Merz (una versione molto di destra rispetto all’ultracentrista Angela Merkel), una grande avanzata dei neonazisti dell’Afd (ma contrari alla guerra contro Mosca) ed una più moderata della sinistra radicale di Sarah Wagenknecht, mentre gli “austeri” liberali dovranno lottare per non scomparire del tutto, proprio come i guerrafondai “verdi”.
Per l’Spd, ancora guidata da Scholz, è previsto un bagno di sangue, mentre la “sinistra disponibile” della Linke sarà verosimilmente azzerata.
C’è da cambiare radicalmente la politica di bilancio, aprendo una stagione di giganteschi investimenti pubblici per cercare di superare la profondissima crisi industriale che sta vivendo la Germania (Volkswagen, Mercedes, Bmw, ThyssenKrupp, ecc, stanno tutti programmando chiusure di stabilimenti e licenziamenti di massa).
Ma è l’esatto opposto di quanto fatto – e imposto a tutta la UE – negli ultimi 30 anni. Democristiani e liberali non sembrano ancora essersene accorti. Dunque trovare una quadra e una maggioranza, a seconda del parlamento che verrà fuori dalle urne, sarà particolarmente complicato.
Situazione ancora peggiore a Parigi, dove il banchiere diventato presidente – Macron – appare ormai come un pazzo barricato nell’Eliseo, che rifiuta di uscirne e nomina un primo ministro dopo l’altro solo per vederseli sfiduciare e intanto restare al suo posto.
Divertente il siparietto rivelato dalla testata Politico a proposito della nomina di Bayrou, leader di un partitino di centro, come presidente del consiglio. Macron aveva in mente di mettere su quella poltrona il ministro della difesa uscente, Sébastien Lecornu, oppure l’ex ministro dell’Industria, Roland Lescure. Entrambi fedeli sostenitori che sarebbero stati completamente dipendenti da Macron, e quindi più malleabili.
Ma venerdì mattina, quando Macron ha invitato Bayrou all’Eliseo per informarlo della sua decisione, l’anziano ex ministro dell’istruzione ha minacciato di far cadere subito il prossimo esecutivo se non fosse stato nominato lui.
Un grande paese europeo in mano a ricattatori e banchieri… non proprio un grande destino davanti.
Questo Bayrou, che i “democratici” italiani descrivevano come “più attento alle istanze della sinistra” (preparandosi così a giustificare l’eventuale rottura dei “socialisti” con la France Insoumise di Mélènchon e quindi la fine del Nuovo Fronte Popolare uscito vincente dalle elezioni politiche), ha aperto le sue consultazioni privilegiando subito… Marine Le Pen.
Bayrou è un vecchio navigatore della politica francese, tre volte candidato alle presidenziali e tra volte trombato, un habitué dei voltafaccia e dei cambi di casacca. Tra le sue fissazioni più costanti c’è però la riduzione drastica del debito pubblico, tema su cui è caduto il suo predecessore, l’ex commissario europeo Barnier.
Quindi si pone su un percorso programmatico in continuità con Barnier, anche perché l’agenzia di rating Moody’s ha disposto un declassamento di titoli di stato francesi che “riflette la nostra visione che le finanze pubbliche del paese saranno sostanzialmente indebolite nei prossimi anni“.
Prevedibile, insomma, che si apra un iter difficoltoso, con la solita ricerca di un “sostegno esterno” su singole questioni, da contrattare ogni volta e perennemente a rischio di insuccesso. Con relativa crisi e dimissioni…
Da un lato abbiamo dunque una Germania che dovrebbe cominciare finalmente a fare investimenti pubblici (potendo permetterselo senza infrangere troppo le “regole europee” che lei stessa ha imposto), dall’altra una Francia che dovrebbe percorrere la strada esattamente opposta, adottando le politiche “lacrime e sangue” recessive che fin qui aveva adottato in misura ridotta e comunque fortemente contrastate dalla popolazione (gilets jaunes, Cgt, studenti, ecc).
Entrambi i paesi, comunque, con maggioranze composite e altamente fragili.
Non proprio la situazione ideale per chi, ancora oggi, pretende di essere il baricentro di un continente sull’orlo della crisi di nervi e con la guerra alle porte.
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