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Fare conflitto sociale anche in piena pandemia. Intervista a G. Lutrario

Abbiamo posto alcune domande a Guido Lutrario dell’Esecutivo Nazionale dell’USB per fare un quadro dell’azione della Federazione del Sociale, partendo dalla suo origine fino ai suoi recenti sviluppi e le sue attuali prospettive, ed in generale delle l’iniziative del sindacato nel difficile contesto pandemico.

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L’Unione Sindacale di Base, che aderisce alla World Federation of Trade Unions (WFTU), in italiano Federazione Sindacale Mondiale, nasce il 10 maggio del 2010. Un percorso di maturazione di un rapporto tra le precedenti esperienze del sindacalismo di base come RdB, SdL e parti dell’allora CUB, nato dalla necessità di costruire una alternativa confederale a CGIL, CISL e UIL e proiettare il sindacalismo conflittuale oltre i perimetri dell’allora sindacalismo di base.

Ai due pilastri “tradizionali” dell’intervento nel settore pubblico ed in quello privato, l’USB ha unito l’esperienza positiva della Federazione del Sociale.

Una delle scelte fatte nell’ultimo congresso dell’USB, che ha permesso di dare sbocco concreto a quel “sindacalismo metropolitano” e/o “confederalità sociale” che esprime i bisogni di una larga fetta delle classi subalterne: quel precariato sociale diffuso, per così dire, cui le forme tradizionali di sindacalismo hanno avuto difficoltà a dare concretamente una rappresentanza stabile.

Alla Federazione del Sociale aderiscono l’ASIA (Associazione Inquilini e Abitanti), la Federazione dei Pensionati e lo SLANG (Sindacato Lavoratori di nuova generazione).

Puoi ripercorrere le tappe che hanno portato a quella scelta che si è dimostrata finora una scommessa riuscita?

L’incubazione del progetto è stata lunga perché abbiamo dovuto maturare l’esigenza di accogliere dentro la nostra organizzazione forme e modalità di gestione inedite rispetto alla tradizione sindacale della quale siamo parte.

Chi ha un rapporto discontinuo con il lavoro non riesce ad organizzarsi con il sistema delle rappresentanze aziendali, con i delegati e con tutto lo strumentario tipico del sindacalismo novecentesco. Non solo. Dovevamo maturare l’idea che la tutela del lavoro potesse arrivare, per diversi settori, più da un piano di lotta che si svolge prevalentemente fuori dal luogo di lavoro che attraverso il classico conflitto nei luoghi dell’attività.

Per un’organizzazione fatta tutta di lavoratori e delegati abituati alla lotta sindacale in azienda – che sia un magazzino, una fabbrica, un ufficio, un ospedale, una scuola, un aeroporto o un centro commerciale – immaginare che la lotta sindacale si dovesse proiettare in ambienti diversi da quelli del lavoro non era affatto semplice.

Due fattori oggettivi ci hanno dato una spinta ad accelerare: una conflittualità sempre meno intensa proprio nel mondo del lavoro tradizionale e un evidente allontanamento dei giovani dall’attività sindacale.

L’Italia in questi anni è stata attraversata da una lunga sonnolenza del conflitto sociale e quando il conflitto si è manifestato lo fatto prevalentemente su terreni altri da quelli del lavoro. Eppure i movimenti che ci sono stati sono stati promossi da una composizione sociale fortemente precarizzata e giovanile, che non è riuscita a misurarsi con il problema delle proprie condizioni di vita e di lavoro.

La scommessa della Federazione del sociale è proprio quella di intercettare questo mondo e portarlo alla sindacalizzazione, naturalmente di nuovo tipo.

A metà giugno di quest’anno, agli Stati Generali del Governo Conte, sei intervenuto come membro dell’Esecutivo Nazionale USB, rivolgendoti al Premier Conte e chiedendogli di “ascoltare il grido di rabbia” che veniva dalle porzioni più vulnerabili dell’Italia – nel caso specifico quello dei compagni e familiari due lavoratori migranti morti – “perché ci spiega com’è diventato questo Paese”.

Hai duramente criticato le ricette dell’esecutivo perché prigioniere di una visione che ci ha “portato a questa situazione” in cui le grandi imprese private, erano e continuano ad essere, le destinatarie dell’azione positiva del governo. In quell‘intervento hai ribadito il fatto che al centro dell’azione politica dovevano essere i diritti dei lavoratori e l’impresa pubblica, a cominciare dallo sviluppo della Sanità pubblica, ridotta all’osso dal “pareggio del bilancio”, insieme a una “robusta ripresa dell’intervento pubblico nell’economia, a partire dai settori strategici”.

Pensi che le tue esortazioni siano state da allora lettera morta od il governo abbia cercato in un qualche modo di rettificare la rotta?

Questo governo è completamente succube delle scelte che vengono decise a Bruxelles in sede di Commissione Ue e gli aggiustamenti che ha introdotto rispetto alle linee d’azione degli anni passati sono stati semplicemente il prodotto di una crisi di tali proporzioni che li ha indotti a rettificare il loro modus operandi.

Sono stati costretti a destinare fondi per il sostegno di lavoratori e famiglie semplicemente perché, altrimenti, si sarebbero trovati di fronte ad una situazione ingestibile, sia dal punto di visto dell’ordine pubblico che da quello dei consumi.

Ma al centro delle attenzioni di questo governo c’è sempre il sostegno alla grande impresa, come dimostra la determinazione a tenere aperte le fabbriche e l’insieme delle attività produttive, che resta la vera causa del mancato controllo dei contagi e della seconda fase della pandemia che stiamo tutt’ora vivendo.

Né c’è un serio ripensamento in termini di politiche pubbliche, a cominciare dalla sanità. Non ci sono state nuove assunzioni e il personale impiegato è solo a tempo parziale o addirittura sono stati richiamati in servizio medici in pensione.

Credo che il segnale più evidente del fallimento di questo governo siano le chiusure totali operate in alcune regioni, penso ad esempio alla Calabria e all’Abruzzo, non perché ci fosse stata una particolare impennata dei contagi, ma per il rapido riempimento dei reparti di terapia intensiva, talmente limitati da esaurire la loro capienza con poche decine di malati.

Abbiamo chiesto a questo governo di reintrodurre l’idea di programmazione e pianificazione dell’azione pubblica e di fare alcune cose semplici: assumere personale nella sanità, nella scuola e nei trasporti, sostenere la ricerca pubblica, riattivare le strutture dismesse in questi anni nella sanità pubblica (ospedali, ambulatori territoriali, ecc.) e rafforzare tutto il campo dei servizi.

La scelta di dedicare il grosso delle risorse alle grandi aziende private condiziona fortemente l’agire di questo governo e mette a repentaglio anche la salvaguardia dei diritti più elementari della cittadinanza.

Nell’ottobre di quest’anno, l’USB ha reso pubblica una piattaforma organica su come affrontare la crisi ed utilizzare al meglio le risorse a disposizione in cui si affronta di petto la questione del Recovery Fund rifiutandone la logica alla radice, frutto della vera natura della UE. Quali sono le misure nel documento che vengono suggerite per quei soggetti che sono i più colpiti dalla situazione di crisi socio sanitaria?

Innanzitutto chiediamo il divieto di licenziamento e la prosecuzione degli ammortizzatori sociali finché durerà la crisi. Il governo, sempre sotto la spinta pressante di Confindustria, vuole interrompere questi provvedimenti appena i contagi saranno tornati sotto il livello di guardia, ma in realtà la fine dei contagi non corrisponderà alla conclusione della crisi.

In secondo luogo, chiediamo che venga istituita una vera misura di sostegno al reddito, più efficace del reddito di cittadinanza, e senza quelle odiose condizionalità che servono a colpevolizzare il disoccupato e a costringerlo ad accettare lavori a basso salario.

In terzo luogo, un nuovo ammortizzatore che copra quei settori che non dispongono della cassa integrazione, neanche di quella in deroga, e che sono stati raggiunti da un semplice bonus una tantum di emergenza, ma che invece hanno bisogno di interventi duraturi.

Questo per quanto riguarda gli interventi tesi a rispondere all’emergenza.

Sul piano strutturale invece l’USB propone la costituzione di un soggetto pubblico come era un tempo l’IRI, un ente che possa agire una politica industriale pubblica, che nel nostro paese non c’è più da alcuni decenni, da quando il centrosinistra ha smantellato l’industria statale, svendendo tutte le industrie strategiche ai privati.

Nei trasporti, nell’energia, nelle telecomunicazioni c’è bisogno di un forte ritorno all’iniziativa pubblica, sostenuta dallo sviluppo della nostra ricerca che è una eccellenza. Peccato, però, che i nostri scienziati emigrino all’estero per trovare lavoro o uno stipendio decente.

Infine, un Piano straordinario del lavoro in tutto il settore dei servizi e della pubblica amministrazione. Abbiamo intere regioni dove le strutture dei Comuni sono al collasso per mancanza di personale e i servizi sono anche completamente assenti.

Per risanare il territorio, per metterlo in sicurezza, per far funzionare i servizi o per aprirli (come gli asili nido o la scuola a tempo pieno al sud, per esempio) c’è bisogno di un rilancio dell’occupazione nel pubblico. In questo modo ridurremmo fortemente la disoccupazione e rimetteremmo in moto il paese, rispondendo alle esigenze dei territori e della popolazione.

A fine ottobre-inizio novembre una ondata di mobilitazioni ha investito il Paese vedendo la Federazione del Sociale come una delle protagoniste delle piazze con le parole d’ordine “la crisi la paghino i ricchi, nessun ricatto tra salute e reddito”. Si sono svolte iniziative a Grosseto, Napoli, Livorno, Catania, Cosenza, Bologna, Reggio Calabria, Roma, Torino, Milano, in cui l’USB chiedeva contemporaneamente un lockdown effettivo per la tutela della salute ed allo stesso tempo una serie di tutele reali per i soggetti coinvolti, attraverso una tassazione dei grandi patrimoni e la riduzione delle spese militari.

Quali sono i soggetti che si sono più mobilitati e come la Federazione del Sociale riesce a dialogare anche con questi pezzi di “ceto medio impoverito”, un fenomeno – a parte il contesto pandemico – per certi versi simile ai “gilets jaunes” in Francia gli scorsi anni?

Va detto innanzitutto che la protesta ha assunto un connotato di massa soltanto a Napoli, dove c’è stata una ondata spontanea di contestazioni al governatore De Luca per la sua richiesta di lockdown in assenza di misure economiche a protezione della popolazione.

Altrove invece abbiamo assistito più a mobilitazioni di categoria, commercianti e lavoratori di settori più esposti, come il turismo, la ristorazione, i taxi, lo sport e lo spettacolo e in diversi casi anche a proteste sostenute dalle associazioni datoriali.

Noi abbiamo sentito la necessità di stare dentro le proteste, anche se queste portavano avanti parole d’ordine contraddittorie: bisogna saper stare dentro le contraddizioni ed essere dentro la realtà se si vuole provare a favorire dei cambiamenti.

Naturalmente non abbiamo mai rinunciato a proporre la nostra piattaforma e a lavorare affinché gli interessi dei lavoratori non fossero confusi con quelli dei datori di lavoro, ma l’obiettivo immediato in quel frangente non era lo scontro con le aziende, ma fare in modo che il governo mettesse in campo le risorse economiche per chi non poteva andare a lavorare e per i settori costretti a chiudere.

Certo ci sono zone del paese dove prevalgono l’economia informale e il lavoro nero e lì non bastano o non servono gli ammortizzatori sociali, ma ci vogliono provvedimenti che raggiungano effettivamente questa fascia della popolazione.

Comunque le proteste hanno imposto al governo 4 diversi decreti ristori e un cospicuo numero di miliardi che non erano previsti.

Il 25 novembre c’è stato lo sciopero nazionale in quattro comparti: Sanità, Scuola, Trasporti e Nidi. Una scelta coraggiosa, in cui a parte alcuni settori (logistica e lavoratori della gig economy in particolare), il conflitto di classe tra le fasce dei subalterni e l’azione collettiva sembra essere a livelli fisiologicamente bassi. Nella piattaforma è detto espressamente:

Il 25 novembre scioperano Sanità, Scuola, Servizi educativi e Trasporti locali: investimenti, assunzioni stabili e sicurezza per costruire il futuro

Dall’inizio della pandemia la Sanità, la Scuola, i Servizi educativi e il Trasporto pubblico locale, già disastrati da decenni di tagli, chiusure e privatizzazioni, funzionano unicamente grazie agli sforzi disumani dei lavoratori e delle lavoratrici.

Dall’inizio della pandemia non un segnale di inversione di tendenza è arrivato dalla politica, dalle amministrazioni e dalle aziende. Si va avanti per sfinimento, con le consuete violente ricette di risparmi, riduzioni di posti e servizi, precariato.

Dall’inizio della pandemia non un piano di sviluppo è stato impostato, facendo leva sull’eccezionalità del momento e della situazione, per garantire ai cittadini e ai lavoratori i basilari diritti costituzionali: salute, istruzione, mobilità, sicurezza, lavoro. La vita, insomma

Puoi farne un bilancio provvisorio?

Lo sciopero nel nostro paese è sottoposto, nei servizi pubblici essenziali, a delle restrizioni per legge che molti altri paesi europei non hanno. Va proclamato con largo anticipo, non si può fare in modo concomitante in settori contigui (per esempio le ferrovie non possono scioperare con il trasporto locale o quello aereo), si può farlo per un solo giorno e mai per più giorni, e via dicendo.

Questo ha fortemente depotenziato questo strumento di lotta ormai da decenni (la legge che limita il diritto di sciopero è in vigore dai primi anni 90), e quindi non dobbiamo guardare allo sciopero nei servizi in Italia come a un qualcosa che possa paralizzare il paese.

Perché questo possa avvenire servirà una crescita esponenziale del sindacalismo conflittuale ed un largo movimento di protesta, che ancora non c’è. Il nostro sciopero non aveva quindi la velleità di fermare i servizi, ma di lanciare segnali di contestazione, di alimentare i focolai di resistenza e di dare voce a tutti quei lavoratori che stanno soffrendo condizioni pesantissime, perché manca il personale, i turni di lavoro sono estenuanti e le attività si svolgono correndo continuamente il rischio del contagio.

Abbiamo costruito una diretta dalle piazze di tutta Italia che abbiamo animato nel giorno dello sciopero e la risposta è stata incoraggiante: sia dalle grandi città e dalle aree metropolitane come Roma, Napoli, Milano e Bologna, che dai centri minori come Catanzaro, Pescara, Taranto, Trieste, ecc. ci sono state mobilitazioni di lavoratori, segno che il messaggio è circolato.

La partita però siamo tutti coscienti che non si gioca oggi, ma sul medio periodo, quando gli effetti pesanti e drammatici della crisi si faranno sentire in modo violento: sarà allora che l’USB dovrà farsi trovare pronta all’appuntamento con la ripresa del conflitto sociale.

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1 Commento


  • stefano

    piccola dimenticanza la riduzione generalizzata del tempo di lavoro individuale e la redistribuzione del lavoro complessivo sociale

    consiglierei quindi lo studio di quanto ci offre il lavoro da anni svolto da Giovanni Mazzetti e dal Centro Studi e Iniziativa Arela (https://www.redistribuireillavoro.it/)

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