Condannati per aver massacrato manifestanti inermi, per avere torturato detenuti, per aver spacciato droga, persino per aver ucciso. Eppure ancora in servizio, con il compito di far rispettare quelle stesse leggi che loro hanno infranto. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. Anche i poliziotti riconosciuti colpevoli dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme.
Non è l’unico caso.
“L’Espresso” ha esaminato una lunga serie di procedimenti contro uomini delle forze dell’ordine che non sono stati radiati, nonostante fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina, come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli unici dati disponibili permettono di capire l’importanza della questione: solo negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l’esattezza 105 sono stati indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque accertati. E, d’altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza per anni e anni.
Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza non è in discussione. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata.
G8 SENZA CONSEGUENZE. Il blitz nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però l’interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella scuola una «macelleria messicana», oggi lavora al vertice della Direzione centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari.
PESTAGGIO CANCELLATO. Nel marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l’accesso alla questura. Oggi c’è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della lentezza della giustizia e dell’inerzia delle commissioni disciplinari. I reati di violenza privata, lesioni, falso e abuso d’ufficio sono stati prescritti in primo grado. Il tempo ha cancellato anche l’imputazione più grave di sequestro: lo ha stabilito la Corte d’appello, che si è pronunciata solo nello scorso gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni.
Fonte: L’Espresso
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