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Processo Uva, qualcuno dovrebbe dimettersi

Ci sono voluti sei anni e poco più per arrivare al vero processo sulla morte di Giuseppe Uva. Mentre ci si fa giustamente prendere dall’euforia per questo traguardo agognato da molti, soprattutto dai familiari di Giuseppe, non bisogna dimenticare di porsi una domanda fondamentale: perché ci sono voluti sei anni? Come è stato possibile che questo processo abbia richiesto sei sentenze – con quella di ieri del GUP Stefano Sala, siamo arrivati a sette – una riesumazione della salma, diverse richieste di avocazione del processo puntualmente rigettate, querele su querele ai danni di chi osava mettere in dubbio la condotta dei carabinieri? Sono domande topiche, epocali. E come tutte le domande sui bizantinismi della giustizia italiana, non troveranno mai risposte. Una cosa è certa, ogni procura, ogni tribunale è un microcosmo a se, e quello di Varese riproduce su scala ridotta il “porto delle nebbie” di Roma, ovvero Piazzale Clodio.

In sei anni di processo, l’accusa ha fatto il bello e il cattivo tempo, ha interrogato testimoni, ha cacciato i familiari all’aula, ha scambiato il sangue per succo di pomodoro, ha dato del drogato a un testimone, ha fornito una nuova versione sui tempi di permanenza di Giuseppe Uva in caserma, ha dato fondo insomma a tutti gli strumenti che aveva a disposizione per affermare che nella caserma di Via Saffi non era successo un bel niente. È stato fatto comprendere in tutti i modi, all’accusa, che si stava sbagliando. Gliel’hanno fatto capire diversi giudici, demolendone punto su punto le tesi che ostinatamente portava avanti da anni. Non di malasanità si trattava ma di ben altro, gli disse il giudice Orazio Muscato, quando assolse tutti i medici che tentarono di prendersi cura di Giuseppe, ridotto male a quanto pare, nel reparto psichiatria. “Bisogna mandarli a processo, e subito”, rincarò il GIP Battarino quando stabilì l’imputazione coatta per i sei poliziotti e i due carabinieri, accusati di quattro tipi di reato tra cui l’omicidio preterintenzionale. E poi ci fu finalmente l’avocazione del fascicolo. Cos’altro serviva?

Intanto, intorno infuriava la tempesta mediatica che ha fatto saltare i nervi a non poche persone.

L’assegnazione del fascicolo al nuovo PM Felice Isnardi lasciava ben sperare. Il trasferimento del procuratore capo Maurizio Grigo a Campobasso anche. Cambia il vento a Varese, pensarono tutti.

Macché: il nuovo pm riesce a superare chi l’ha preceduto, chiedendo addirittura il non luogo a procedere per tutti i reati.

Ancora una volta, un giudice ne ha ignorato le richieste e ha mandato tutti a processo. Per tutti i reati.

Adesso, come se non bastasse c’è il rischio prescrizione.

La storia di Giuseppe ormai la conoscono tutti. Tutti hanno di fronte agli occhi quelle evidenze che nemmeno sessant’anni di farse processuali potrebbero demolire. Si sono avvicendati governi, ministri, papi, sono scoppiate diverse guerre nel frattempo. Ma c’è qualcuno che rimane ancora lì e non viene rimosso. Resta lì a Varese, in quel tribunale le cui pareti nascondono chissà quali battaglie intestine in corso. O forse niente di tutto questo. Sei anni di processo per stabilire solo oggi che il vero processo non c’è mai stato, migliaia di euro gettati al vento, dolore, morte, sopraffazione, impunità in divisa sono la normalità, la prassi. Che nessuno paghi in termini professionali per tutto ciò, forse è diventato scontato. L’anomalia diventa normalità. La legge diventa qualcosa di sempre più relativo e personalizzabile, e ha ormai dissipato il confine con l’abuso impunito.

Resta solo l’amarezza. Restano ancora domande senza risposte.

E restano troppe persone dove non dovrebbero restare.

 

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