Ma l’indirizzo è stato subito sospeso e questa decisone è stata immediatamente applaudita dalla Isda (International Swaps and Derivates Association), la più grande lobby finanziaria mondiale. L’Isda raccoglie oltre 800 società, finanziarie e non, che operano con i derivati. Tra i suoi membri ci sono tutte le banche principali e tutte le grandi compagnie petrolifere. È una delle lobby ufficialmente accredidate presso il parlamento europeo e lo scorso hanno ha ufficializzato 700.000 euro di spese per il suo lavoro. Nulla, se si tiene presente che ciascuno degli 800 soci può poi intervenire direttamente.
Prendiamo il caso della Bank of Scotland. Per assicurarsi buone entrature a Bruxelles ha ingaggiato come senior advisor l’ex commissario Guenter Verheugen. Tedesco, ex vicepresidente della commissione Ue, allontanato per aver assunto una presunta amante, è passato tranquillamente dal ruolo politico a quello di consigliere di una delle principali banche europee. Applausi anche dalla Afme (Association of Financial Market in Europe) che ha nel suo cda le principali banche americane (da Goldman&Sachs a Morgan Stanley). Anche questa è una lobby ufficiale, con rappresentanti a Bruxelles.
Ma c’è di più. La presenza di queste due lobby direttamente nelle commissioni è massiccia. La Commissione per riformulare le regole del mercato dei derivati (Derivates Expert Group) è composta da 44 membri: 10 sono autorità pubbliche e ben 34 i membri delle maggiori società finanziarie mondiali, di cui 24 direttamente legati all’Isda. Perfino il Commissario europeo ha dovuto sottolineare che queste commissioni vanno «riequilibrate» con rappresentanti della società civile! Ma l’Isda è una vera macchina da guerra. Secondo i suoi dati, il mercato dei soli derivati ha superato i 450 triliardi di dollari, circa 10 volte il Pil mondiale. I suoi associati lo controllano interamente, ma i due terzi – circa 360 triliardi – sono nelle mani di sole 14 società. L’Isda è dunque lo strumento «politico» della più grande massa di ricchezza teorica sulla faccia della terra. Dall’alto dei suoi numeri può tranquillamente sfidare i governi. In particolare, in questo momento sta sfidando il duo Merkel-Sarkozy proprio sui Cds.
I due capi di stato, da marzo, stanno premendo sul Parlamento europeo per un intervento radicale in questo campo. Per frenare la speculazione, il mese scorso hanno firmato congiuntamente una lettera per invitare il Parlamento a vietare sia le vendite allo scoperto dei bond sovrani sia l’emissione di Cds sullo stesso debito. Una posizione radicale che rischia di compromettere il piu redditizio dei prodotti derivati, il Cds, e in un certo senso il piu «sicuro». Pur essendo un’assicurazione che copre i rischi del debito sovrano, infatti, chi la emette è sicuro che non dovrà pagare mai. Il default di uno stato è l’ultima cosa che tutti auspicano; da qui i cordoni sanitari della finanza internazionale e i sacrifici imposti alla gente dei paesi minacciati dal default. Si tratta del tipico prodotto che rende senza grandi rischi. Ma quanto rende? Prendiamo il caso del Portogallo. Fino ad un anno fa il Cds sul debito sovrano costava 3,66 %; oggi costa il 10.15%. Chi ha emesso Cds lo scorso anno ha guadagnato il 300%; e non su piccole cifre. Ma lo ha fatto scommettendo contro il Portogallo, sull’ipotesi che l’economia andasse male e che quindi le agenzie di rating sanzionassero l’andamento del paese. In parole povere, questi prodotti giocano contro l’economia reale. Perchè, se l’economia va male, i conti pubblici peggiorano, i bond pubblici vengono giudicati rischiosi e si deve spendere di piu per assicurarli. Dove finisca la realtà e cominci la manipolazione dei dati è tutto da accertare.
Traducendo in numeri: oggi l’Italia paga 220.000 euro un Cds a 5 anni per coprire l’emissione di bond per 10 dieci milioni. Una tassa incredibile a cui bisogna aggiungere l’interesse del bond medesimo. Una tassa di cui forse varrebbe la pena di cominciare a discutere, come dice il commissario della commissiione europea, anche nella società civile. Perchè pagare chi ci gioca contro non è esattamente la cosa piu intelligente da fare.
da “il manifesto” del 10 luglio 2011
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A conferma, ecco anche un articolo da IlSole24Ore. Cambiano un po’ i “decisori occulti”, ma nemmeno troppo.
Gli uomini d’oro della finanza-ombra, volti e misteri dei signori degli hedge fund
di Luca Davi
MILANO – L’Italia è sotto attacco e subito il pensiero corre a loro, gli hedge fund, i super fondi alternativi che usano tecniche di gestione non adottabili dai tradizionali fondi comuni.
Secondo i rumors di Piazza Affari, diversi, tra i grandi colossi del settore, stanno vendendo importanti quote di titoli governativi del nostro paese per comprare credit default swap, ovvero le speciali polizze assicurative che proteggono dal rischio di default. Si tratta solo di voci, ovviamente, ma pur tra tanti dubbi, una certezza c’è: la manovra al ribasso funziona. E pure bene, a vedere i danni provocati venerdì scorso. E questo è anche frutto del fatto che il mercato dei titoli di stato italiani è fortemente liquido, tanto che anche prima della crisi finanziaria l’attività di vendite al ribasso erano una strategia frequentemente attuata.
Ma chi comanda oggi il mercato degli hedge fund? E qual è lo stato di salute del settore? Anzitutto va detto che i fondi speculativi hanno sofferto duramente la crisi finanziaria. Dal crack Lehman in poi centinaia di strumenti simili hanno chiuso i battenti, in parte per le devastanti perdite sui listini, in parte per l’emorragia inarrestabile dei feeder fund. Solo pochi operatori, dunque, sono sopravvissuti. Tra questi, chi può dire di avercela fatta, e pure alla grande, è Raymond Dalio, money manager tra i più ricchi al mondo (secondo Fortune il suo reddito ammonta a 2,5 miliardi di dollari l’anno) e fondatore di Bridgewater Associates, il più grande hedge fund al mondo, che oggi può contare su una massa di attivi pari a 92 miliardi di dollari. L’impresa non è stata solo quella di non perdere soldi con la crisi, ma addirittura di averci guadagnato, visto che prima di allora il fondo deteneva masse per “soli” 52 miliardi. Reputato un autentico deus ex machina dei mercati mondiali, Dalio ha appena lanciato uno dei più grandi singoli fondi-veicolo della storia (il cui taglio è di 10 miliardi di dollari) e punta già a superare i 100 miliardi di dollari di asset.
Accanto a lui, tra i protagonisti del mercato ci sono Thomas Steyer (autentico pioniere della strategia “absolute return”, che gli ha permesso di gestire un patrimonio di 21 miliardi di dollari) e Lawrence Robbins (a capo di Glenview Capital Management, che gestisce un patrimonio da 5,1 miliardi di dollari). Senza dimenticare Kenneth Griffin, fund manager di Citadel, il fondo speculativo che, con i suoi 11 miliardi di dollari sotto gestione, ogni giorno muove volumi azionari pari al 3% dell’attività media di trading a Londra, New York e Tokyo. Il settore sta insomma rialzando la testa. Dopo il collasso legato al crack Lehman, i gestori stanno infatti riconquistando rapidamente la fiducia degli investitori. La massa totale dei patrimoni gestita è vicina ai 2 mila miliardi, ai massimi da inizio 2008. E non c’è da stupirsene. In una fase contrassegnata da tassi di interesse bassi e da mercati azionari molto volatili, i fondi speculativi appaiono lo sbocco d’investimento ideale, in virtù della loro capacità di generare rendimento decorrelato. Non è un caso che i fondi sovrani, gli endowment delle grandi università americane e i grandi investitori istituzionali, come i fondi pensione, si stiano rivolgendo a loro per dare una marcia in più al proprio portafoglio. Speculazione o meno, l’importante, in fondo, è guadagnare.
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