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Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Giorgio Gattei (Seconda parte)

Domanda: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi, ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o non sarebbe meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?

 E’ questa una domanda un po’ complicata. Il pensiero economico che oggi è dominante è quello della “supremazia del mercato” quale è uscito dalla controrivoluzione monetarista degli anni ’80 del secolo scorso. I suoi sostenitori sono stati bravissimi, non soltanto nel costruire progressivamente un’opinione pubblica favorevole al “mercato” e contraria allo “Stato”, ma soprattutto nel favorire una strategia d’occupazione dei posti di potere nell’accademia, nella stampa, nella televisione così da relegare ai margini gli oppositori. Il grande pubblico, che sente soprattutto e dappertutto le loro opinioni, si conforma in merito. Certamente permangono piccoli nuclei di resistenza, ma che forse è appena renitenza. Cosa allora potranno mai fare coloro che vi aderiscono? Innanzi tutto cercare di non vendersi mai al “nemico” e poi produrre teorie interpretative che siano antagoniste al cosiddetto “pensiero unico”, così da dar luogo ad un pensiero economico divergente.

            Però bisognerà diffonderle queste concezioni economiche alternative! E come? Sfruttando tutti gli spazi possibili di discussione, ma non in maniera indiscriminata. Su questo, io sono piuttosto selettivo. Seleziono i miei interventi sulla base di una regola ben precisa: niente contraddittorio! Non partecipo insomma ad occasioni, eventi e quant’altro in cui siano presenti anche degli avversari, non avendo alcun interesse a confrontarmi con loro. Io ho le mie idee e non le cambierei certamente ascoltandoli, ma lo stesso vale per loro che resteranno solidi nel loro guscio. E allora perchè confrontarsi? Per il pubblico che assiste allo spettacolo (che proprio di questo, piuttosto che di un confronto di idee, qui si tratta) che può essere influenzato da uno dei due contenenti. Ma da chi? Da quello che è più abile alla discussione, chei sa “porgere” meglio gli argomenti, che conosce come “accarezzare” il pubblico, che insomma è più “attore”. E siccome è proprio questo che io non so fare, non capisco perché dovrei accettare dei confronti in cui, a prescindere dal contenuto delle mie idee, sarei già in partenza soccombente almeno per la forma espositiva. Se m’immagino a confronto con un politico o con un “animale da spettacolo”, non necessariamente più intelligente di me ma più abile dal punto di vista della forza di persuasione, è ovvio che il pubblico sarà più impressionato da lui che da me. Ma se così è (come è), perché dovrei garantirgli tanto risultato positivo? Che si presenti da solo ed esponga la propria argomentazione cercando d’influenzare il pubblico. Come peraltro faccio io quando argomento, da solo o in incontri simpatetici, le mie opinioni e i presenti mi ascoltano decidendo poi liberamente cosa farsene di quanto ho detto. E gli organizzatori? Se non sono soddisfatti della mia opinione, possono sempre organizzare un altro incontro con qualcuno che la pensi diversamente da me.

La seconda parte della domanda riguarda invece la possibilità di riformare il capitalismo e quindi di partecipare alla sua gestione (pro quota, naturalmente). A questa domanda posso rispondere molto semplicemente che sono in una condizione di tale emarginazione intellettuale che non ho alcun rischio di sentirmi offrire qualche responsabilità di gestione. Se mai mi proponessero di fare (che so?) il ministro, non so come mi comporterei perchè la carne è debole. Ma per non cadere in simili tentazioni faccio il possibile per evitare gli incarichi pubblici. Preferisco essere un “battitore libero” che parla del mondo, fregandosene bellamente della sua gestione. Rivendico una divisione del lavoro: ci sono i profeti che “gridano nel deserto” e ci sono i potenti che governano le città. Io preferisco fare il profeta (anche se non sto proprio in mezzo ad un deserto), giusta quella regola dei primi cristiani di “essere nel mondo, ma non di questo mondo”. Essendo ormai prossimo alla pensione e non avendo finora mai ricevuto alcuna offerta di “cogestione”, non credo che mi possa più capitare. Per cui, non essendomi mai trovato nella situazione e prevedendo che non mi succederà più, rispondo che, per quanto mi riguarda, il problema della “gestione del mondo” non si è posto e non si pone.

 

Domanda: Dal suo punto di vista, dove vede in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia. 

E’ questa è una bella domanda: dove trovare a livello europeo, a livello italiano, una eventuale linea di frattura sociale? Negli anni ’60 fu geniale avere trovato la situazione di rottura nei lavoratori addetti alla catena di montaggio. La catena di montaggio era l’elemento di maggior rigidità della produzione fordista perchè non la si poteva interrompere. E allora bastava anche un piccolo stop per per bloccare l’intero processo. La mia generazione aveva scoperto una rigidità nella continuità della circolazione capitalistica a livello del processo di produzione. Per questo nel cosiddetto “post-fordismo” (un termine che non vuole dire niente, tranne che ormai non siamo più nel fordismo) è stata prorpio la catena di montaggio a venir subito superata con la robotizzazione, così che quel fattore di rigidità non ci presentasse più. E’ da qui che deriva quella condizione d’inferiorità dei lavoratori in fabbrica rispetto ai diktat dei padroni, a cui i sindacati possono opporre soltanto lotte d’autodifesa e poco più.

Ma allora, in questa nuova condizione capitalistica dove potrà mai stare un elemento di rottura? Nei miei studi marxiani sono arrivato al secondo libro del Capitale. Ricordo che Marx al capitale ha dedicato tre libri, con il primo, conosciutissimo, che analizza magistralmente lo sfruttamento della forza lavoro in fabbrica. Negli anni ’50-’60 era soprattutto questo primo libro che a sinistra si studiava per muoversi con cognizione di causa all’interno delle lotte. Ma Marx ha scritto anche un secondo libro che è dedicato al semplice fatto che le merci prodotte vanno poi vendute e che le condizioni di vendita non sono le stesse della produzione differendo per luoghi, tempi e attori economici. Così, dopo aver esaminato il processo di produzione del capitale, Marx ha analizzato come funziona il suo processo di circolazione scoprendo che il plusvalore (diciamo il profitto) che i capitalisti arrivano a guadagnare dipende da due condizioni intrecciate. La prima è che si sfruttino al meglio (dal punto di vista capitalistico, naturalmente!) gli operai: se non si sfruttano, non viene fuori niente, come è evidente. Ma posto che il potere dispotico dei capitalisti sia tale da realizzare il massimo dello sfruttamento, non verrebbe fuori ancora niente se non si realizzasse monetariamente sul mercato il plusvalore prodotto nella fabbrica. Ecco la necessità di scrivere quel secondo libro per mostrare il secondo momento di vita del capitale quando, prese le merci prodotte, le deve far arrivare fino ai consumatori per vendergliele, incassare i quattrini e poi reinvestirli (se del caso) in altra accumulazione.

In questo grande settore della circolazione sono presenti prima di tutto le istituzioni e i lavoratori che devono far sì che le merci incontrino i consumatori – è la distribuzione commerciale. Poi c’è il pagamento del prezzo e quindi tutto quell’insieme di istituzioni e lavoratori impegnati a far sì che il denaro dalle tasche delle famiglie, per intenderci, finisca nelle casse delle imprese che hanno prodotto le merci – è il sistema bancario e finanziario. Infine ci sono, strategici all’interno di questo meccanismo, quelli che trasportano le merci dai luoghi di produzione ai posti di consumo: è il grande settore della logistica che muove le merci per far sì che, prodotte là, vengano consumate qua. Tutte queste operazioni di commercializzazione, finanziarizzazione e trasporto vengono svolte in un tempo reale che non è un tempo logico-astratto. Ed il tempo che le merci ci mettono per uscire dalla fabbrica e trasformarsi in denaro è chiamato da Marx tempo di rotazione. A questo punto la funzione del capitale e dei lavoratori nei settori della circolazione è semplicemente quella di far sì che questo tempo di rotazione sia il più corto possibile, che invece che metterci un anno ci metta sei mesi, che invece di sei mesi ne bastino tre. Con quale vantaggio? Di poter ripetere più volte il processo d’accumulazione del profitto: se si riuscisse a realizzare un secondo investimento ogni mese, invece che in un anno, si guadagnerebbe dodici volte il plusvalore o profitto di un anno solo.

Per questo la formula di valorizzazione del capitale non dice solo che il profitto del capitalista dipende dello sfruttamento dei lavoratori (come spiegato nel primo libro del Capitale), ma che dipende da quello sfruttamento moltiplicato per il numero di volte che il processo di circolazione si ripete in un arco di tempo determinato, mettiamo in un anno. Per questo il profitto annuale del capitalistico è il prodotto dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e della efficienza dei lavoratori della circolazione. Ma è un prodotto e che cosa vuol dire? Vuol dire che, come il profitto diventa zero se non si non si realizza lo sfruttamento, altrettanto diventa zero se non si realizza la circolazione, ossia che, come i lavoratori delle fabbriche devono produrre plusvalore, anche i lavoratori della circolazione devono “produrre” rotazione (un esempio per far capire la cosa: se sono in macchina e ho bisogno di andare più veloce, posso spingere sull’acceleratore sfruttando di più il motore, ma posso anche cambiare marcia velocizzando l’albero motore).

A questo punto è possibile intravedere l’elemento di rigidità del post-fordismo, che non sta più tanto nella fabbrica (almeno nei paesi capitalistici maturi) dove la classe operaia produttiva è stata pesantemente ridimensionata, dalla introduzione del “macchinismo informatico”, ma nel fatto che le merci devono comunque correre, devono girare per arrivare ai consumatori e realizzare in moneta il proprio valore e che, se non arrivano a farlo, è come se quel valore (e plusvalore) non fosse mai stato prodotto. Ecco allora che la scontro di classe si sposta (il capitale lo sa, i lavoratori nel loro complesso un po’ meno) negli ambiti della circolazione che sono: distribuzione, finanza e trasporto. Soprattutto nel trasporto di merci fisiche che devono essere pur tuttavia caricate e scaricate da personale umano sottopagato, eppure assolutamente strategico. Ecco l’elemento di rigidità materiale che ancora sopravvive: le merci fisiche, non le merci elettroniche che corrono per la rete automaticamente, vanno ancora trattate manualmente da lavoratori salariati che, se stoppano il loro lavoro, bloccano la valorizzazione complessiva del sistema, proprio allo stesso modo in cui l’operaio dell’officina Fiat, bloccando la propria catena di montaggio, interrompeva l’intera linea di produzione. Ma per capirlo bisogna prendere coscienza che il sistema capitalistico è un sistema di produzione, ma anche di circolazione e che la circolazione è altrettanto decisiva e strategica quanto la produzione. Così che quei lavoratori della logistica, come i “facchini” che protestano alla Granarolo, quei facchini assunti da false cooperative con salari da fame, possono arrivare a bloccare la circolazione del capitale alla stessa maniera in cui lo possono farle quegli autotrasportatori che, in quanto padroni del proprio mezzo di produzione, non sono direttamente assimilabili ai lavoratori salariati e che la sinistra considera con supponenza lasciando ad altri la gestione delle loro rivendicazioni economiche.

Leggi la prima parte dell’intervista: Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Giorgio Gattei (Prima parte)

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