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Ecofin a MIlano. Un vertice che congela l’Europa

Un vertice Ecofin, i ministri finanziari dell’Unione Europea, è quanto di più opaco possa essere costruito di questi tempi. Retorica euro-unitaria e coltellate nazionaliste sottobanco vanno di pari passo con la costruzione di una camicia di forza per il lavoro, in primo luogo, e per la spremitura dei ceti popolari in forme più complesse.

Diciamo che i temi principali della riunione in corso a Milano oggi e domani sono abbastanza chiari, mentre le soluzioni possibili non lo sono affatto. Se si fa eccezione per l’assoluta condivisione di un solo punto di programma: mettere in campo immediatamente la “riforma strutturale” del mercato del lavoro (in Europa, non solo in Italia), in modo da cancellare financo il ricordo di una forza lavoro organizzata capace di contrattare da posizioni di forza il proprio prezzo.

Tutto il resto è affidato agli “appelli”, alle intimazioni, alle preghiere.

Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha avuto modo di chiarire fino alla noia che “gli stimoli monetari” (il pilastro di sua competenza) non possono fare più di tanto per “la crescita” se non si interviene in molti altri modi. Ieri ha aggiunto – per maggiore chiarezza – gli investimenti, cosa del resto citata anche nei manuali di economia del primo anno (se non si investe, non si produce e non si cresce; banale, vero?).

Qualche parola di più gli è scapata anche sul soggetto che dovrebbe fare questi investimenti, perlomeno in tempi in cui “i privati” si guardano bene dal mettere mano alla cassaforte per investire (almeno in Italia e in gran parte dell’Eurozona): dovrebbero farlo gli Stati nazionali, che contemporaneamente debbono però tagliare l’ammontare della spesa. Come? Data la coperta corta, “si tratta di scegliere”; via il welfare, il più possibile (anche questo però ha effetti recessivi nell’immediato) e avanti con gli investimenti, appunto.

Di più l’Unione Europea non appare in grado di decidere. Ogni passo avant verso politiche industriali e/o fiscali davvero comunitarie, infatti, comporta la condivisione del rischio di bilancio. Ovvero una garanzia comune e una chiamata in causa, come “garanti”, dei paesi con surplus e bilanci nazionali solidi. In altre parole della Germania (per dimensioni, se non altro). La quale però è inchiodata dal suo stesso successo asimmetrico rispetto agli altri paesi Ue; ha sfruttato al meglio la moneta unica e la “flessibilità” concessale ai tempi in cui stava ancora pagando i conti della rapida riunificazione con l’est, ed ora non è disposta a fare viceversa.

Da questo stallo l’Unione Europea non riesce a uscire, nemeno in presenza di una situazione economica avvitata – deflazione, crscita zero, domanda interna ferma o in arretramento, contrazione degli investimenti, difficoltà nell’accesso al credito – che comincia ora a minacciare anche Berlino.

C’è l’idea fatta propria da Jean-Claude Juncker per mediare il più possibile tra “rigoristi” del Nord Europa e “flessibilisti” dl Sud: 300 miliardi di investimenti comunitari (inevitabilmente con quota maggiore a carico dei tedeschi), da concentrare in quattro settori chiave (economia verde, reti di energia e trasporto, mercato unico digitale, infrastrutture sociali); ma il cui cammino appare più impervio di una scalata invernale al K2. Merkel e Schaeuble sono riusciti a mandare a quel paese perfino il Fondo Monetario Internazionale (Christine Lagarde suggeriva di utilizzare l’ampio surplus di bilancio tedesco per investimenti pubblici in infrastrutture, rivendo questa violenata risposta: “Non dobbiamo intrattenerci con l’illusione che possiamo risolvere i problemi usando sempre più fondi pubblici e aumentando i deficit”); figuriamoci cosa possono rispondere a Hollande e Renzi, che insistono nel chiedere “soltanto” un po’ di flessiblità in più sui tempi del rientro nei parametri di Maastricht.

Meno impossibile – almeno riguardo alla tempistica – sembra l’ipotesi italiana di un fondo europeo garantito dalla Bei (banche europea degli investimenti) per dare ossigeno a interventi rapidi nei settori strategici, stimolando così anche le banche private nazionali a erogare credito verso le imprese dell’economia reale.

Al massimo, Berlino supporterà – con moderazione, per carità – il coinvolgimento della Bei, ma soltanto per incentivare la ripresa degli investimenti privati. Poco o nulla, insomma.

Messa così, la crisi appare senza vie d’uscita praticabili. Se anche ci fossero state, infatti, questi niet blindano tutte le strade. La stessa composizione della nuova Commissione (il “governo” dell’Unione Europea) e soprattutto la sua nuova strutturazione (un presidente e sette vice con potere di veto sulle decisioni dei singoli commissari-ministri) appare come una vittoria schiacciante, ancora una volta, della linea “rigostista” di matrice teutonica.

Di “investimenti”, insomma, ce ne saranno ben pochi. Tutti gli sforzi saranno indirizzati ferreamente sui tagli di spesa per risanare i bilanci. Quindi la deflazione si aggraverà a velocità crescente (ha la stessa dinamica della “caduta in vite”, in fisica).

Fin quando, noi e tutti i lavoratori d’Europa sopporteranno tutto questo?

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Aggiornamento delle ore 15.00

Non a caso gli interventi della mattinata non si sono discostati un millimetro dal copione che era stato descritto sopra.

Per “far sì che tornino gli investimenti” serve “fare riforme strutturali più ambiziose. I paesi dovranno affrontare le raccomandazioni specifiche in maniera determinata”. Così il presidente della Bce Mario Draghi ha spiegato ancora una volta la strategia della Troika. “Non dobbiamo dimenticare i profondi squilibri” economici del passato, “i progressi fatti (sul fronte del consolidamento dei bilanci, ndr) non devono essere guastati”; quindi nessuno scostamento dai paletti del Patto di stabilità e crescita che “è un’àncora di fiducia”. Ha mancato di aggiungere “per gli investitori multinazionali”, che sarebbe stato più corretto,ma anche meno difendibile sul piano sociale.

“L’effetto delle politiche monetarie è maggiore se è stato preparato il terreno per riforme strutturali adeguate, piuttosto che in assenza di riforme”, per questo “si parla di dividendi delle riforme”.

L’Eurogruppo, al termine della mattinata, nella nota finale, ribadisce l’impegno “per ridurre in maniera effettiva il carico fiscale sul lavoro”. Si tratta di “una chiara priorità politica” e nel corso dell’incontro odierno sono stati definiti dei principi comuni su come raggiungere l’obiettivo. Gli 80 euro di Renzi sono insoma soltanto una declinazione pauperistica dell’indicazione europea, che punta a sgravare molto di più la parte di tassazione che grava sulle imprese.

Ma questa riduzione comporta tagli ancora più drastici ad altri capitoli di spesa, perché implica una riduzione delle entrate tributarie degli Stati. Per sostenere la crescita in Europa, dunque, a parere del superfalco funlandese Jyrki Katainen, commissario europeo agli Affari economici,  “si può fare molto anche all’interno delle regole esistenti” ed “è importante che non ci siano interpretazioni della situazione ‘o bianco o nero’ “. “Non si deve scegliere tra la crescita o consolidamento, il mondo non è così semplice: occorre una interpretazione sana del consolidamento perché migliori la fiducia”. Cioè, un’ancora più semplicistica “politica dei due tempi”: prima i tagli “per restituire fiducia” (al capitale multinazionale, ndr), poi l’attesa speranzosa che quel capitale stesso si accorga che qui è stato creato “un ambiente favorevole alle imprese”. E che ci conceda la sua attenzione.

Più chiaro, nella sua brutalità leggendaria, il suo maestro –  il ministro tedesco alle finanze Wolfgang Schaeuble – “Siamo in un ambiente economico che richiede un rafforzamento degli investimenti in Europa, Germania inclusa”. Per creare una crescita sostenibile, dice, servono “più investimenti, rispetto del consolidamento, riforme e quadro regolatorio migliore”.

 

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