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Il “modello tedesco” è impoverimento programmato

Contrariamente a quel che si ripete sui media principali, la Germania non è un paradiso. Soprattutto, il suo sviluppo economico attual – in pesante frenata – è sempre meno “europeo”.

Alcuni dati spiegano bene questo andamento. Le esportazioni tedesche verso l’eurozona, in appena sei anni (dal 2007 al 2013) è sceso dal 65% del totale al 57%, “grazie” alle politiche di austerità che hanno aggravato la recessione continentale. Le importazioni dall’area monetaria unica sono invece rimaste all’incirca delle stesse dimensioni. La conseguenza è l’azzeramento del surplus della bilancia commerciale, che per molti anni era stato ben sopra i livelli consentiti dagli accordi Maastricht (non esiste solo il rapporto deficit-Pil).

Se questo “pareggio” tra import ed export fosse stato dovuto a un aumento delle importazioni in Germania gli altri partner euro ne avrebbero tratto beneficio, migliorando i propri conti. Ma per aumentare l’import la Germania avrebbe dovuto applicare al proprio interno una politica tesa a favorire i consumi interni. Cosa che naturalmente non è avvenuta.

Il modello mercatilista è rimasto intatto, riuscendo in parte a compensare le minori esportazioni “interne” all’eurozona con un incremento di quelle extra-Ue. Il che ha consentito di mantenere un discreto surplus nella bilancia commerciale, anche se ora sta rallentando in modo notevole.

Il tutto a un prezzo: comprimere i consumi interni e manovrare l’opinione pubblica creando “nemici” di comodo.

Per esempio. È noto che Bundesbank e Schaeuble predicano il contenimento della spesa pubblica per tutti i paesi dell’Unione Europea e rifiutano qualsiasi politica di mutualizzazione europea del debito, dandone la responsabilità ai paesi “spendaccioni” che vorrebbero ora spremere anche i contribuenti tedeschi, invece di “fare i compiti”.

Poi il Fmi pubblica i dati relativi alla spesa sostenuta dagli stati per salvare le banche private nazionali e si scopre che è stata proprio la Germania a spedere più di tutti in questa operazione: 238 miliardi euro pubblici regalati a banche sovraesposte verso i titoli spazzatura Usa oppure troppo generose nell’erogare prestiti in aree oggi sotto accusa (i paesi dell’area mediterranea). Un salvataggio che altri paesi non poterono compiere o che non era stato neanche necssario (pare sia il caso dell’Italia), ma che ha pesato enormemente sia sui bilanci tedeschi che – soprattutto – nel definire negativamente le politiche europee. Nessuna “mutualizzazione dei debiti pubblici”, perché lo sforzo finanziario era già stato fatto, ma a favore delle banche nazionali (soprattutto verso le meno famose, ma molto “politicizzate” Landesbanken territoriali).

Alla luce di questi dati, insomma, la “virtuosità” teutonica sembra assai meno adamantina.

Anche perché si traduce in ingessamento progressivo del mercato interno. La favola della “piena occupazione” tedesca, per esempio, si infrange a uno sguardo appena meno superficiale. Tra mini-job e altre forme di part time occupazionale, ben il 26% dei lavoratori dipendenti lavora e guadagna molto poco. Tra le donne la percentuale arriva a superare il 41%, e quasi mai si tratta di part time “volontario”. Nella precarissima Italia creata dal “pacchetto Treu” e dalla legge 30 le percentuali sono notevolmente più basse: 17,9 e 32,1%. I lavoratori tedeschi impegnati per più di 35 ore setimanali sono appena il 51%. Come se il “contratto di solidarietà” fosse ormai il contratto prevalente. E il salario, naturalmente, si misura in ore lavorate…

Sono insomma i lavoratori a pagare, anche in Germania, i costi di una crisi aggravata dal “bisogno” di salvare innanzitutto le banche più speculative e irresponsabili.

Ma si tratta di una scelta politica che risale ormai agli anni ’90 e verificata dalla diminuzione drastica della quota di ricchezza nazionale rappresentata dai salari, passata dal 56% del 1991 al 49,7 del 2008 (poi la crisi ha aggravato la situazione, ovviamente).

Una scelta confermata anche dall’andamento degli investimenti fissi lordi (la voce che indica quanto “spinga” un paese in direzione della crescita economica), scesi al 17,6% del Pil nel 2013 nonostante un attivo nella bilancia commerciale di quasi 1.100 miliardi accumulato nei soli quattro anni peggiori della crisi (dal 2009 al 2013). Meno persino dell’immobile italietta di oggi, che può vantare ancora un 18,2%…

“In compenso”, gli attivi tedeschi all’estero sono arrivati a 7.000 miliardi di euro. Sono ricchi, certi tedeschi…

 

 

 

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