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L’austerity può crepare per troppo successo

I soldi devono circolare, altrimenti l’economia non funziona. È quasi un vecchio proverbio, ma le strozzature create dalla bulimia di profitto (nel caso di “privati”) o dall’ansia del surplus (nel caso di stati o comunità di stati) sono un segnale chiarissimo di impazzimento del sistema. Capitalistico.

Non ci addentreremo qui il lunghe dissertazioni sul carattere di questa crisi che dura ormai da nove anni, ma anche attenendosi ai soli dati congiunturali alcune tendenze assolutamente negative balzano agli occhi. Persino a quelli di un normale analista liberale.

Partiamo dal ristretto angolo di osservazione dell’economia italiana. Le previsioni economiche della Commissione europea disegnano una crescita ancora inferiore, sia rispetto alle stime precedente che a quellle – come sempre “ottimistiche” – del governo Renzi. Roba di poco, un decimo di punto percentuale (+1,1%, invece di 1,2), ma a conferma di una tendenza all’appiattimento di una tendenza già troppo fiacca per far immaginare un recupero rispetto ai livelli pre-crisi (si è perso all’incirca un 10%).

Quel poco di differenza è comunque sufficiente ad annullare le ancora più ottimistiche previsioni renziane (in realtà di Pier Carlo Padoan) sul debito pubblico, che non scenderà affatto rispetto ai livelli attuali: 132,7% del Pil. Del resto, pur volendo e dovendo obbedire in quasi tutto alla Troika, il governo Renzi ha preso decisioni di spesa importanti (come gli incentivi alle assunzioni con “contratto a tutele crescenti”, che azzerano i contributi previdenziali versati dallle imprese per tre anni), finalizzate a cementare il proprio blocco sociale di riferimento (Confindustria e banche, essenzialmente, con qualche concessione ai vecchi sistemi clientelari) e neanche utili a “stimolare” quel tanto di rimbalzino economico del 2015. Il risultato sul bilancio, dunque, è inevitabilmente negativo, visto che le entrate vengono ridotte in misura praticamente pari ai tagli di spesa ordinati dalla Troika, concentrati esclusivamente sui capitoli del welfare (pensioni, sanità, ammortizzatori, ecc), quindi sui redditi da lavoro e dintorni.

Una conferma che arriva persino dalle previsioni Ue, che parlano di «crescita moderata» persino dell’occupazione, ma «più in termini di ore lavorate che di persone occupate». Traduzione semplice: il numero di persone che lavorano non cresce, ma il loro orario di fatica si allunga. Gli effetti sul reddito disponibile sono dunque irrisori e questo pesa sulla dinamica fiacca dei consumi interni.

E qui si incontra un limiteche ormai viene colto, per esempio, anche da Federico Fubini, analista del Corriere solitamente inflessibile nel difendere l’ortodossia liberista e pro-austerity. Il suo articolo, che riproduciamo più sotto, mette in luce dettagli solitamente ignorati dello stesso quadro previsionale della Commissione. In particolare i dati relativi al surplus delle partite correnti – le esportazioni dell’Unione Europea rispetto alle importazioni nell’area – praticamente esploso dall’nizio della crisi: da 34 a 400 miliardi l’anno. La quasi totalità diquesto surplus è dovuto ovviamente alla Germania, ma le sue filiere produttive sono talmente innervate ormai nelle economie “contoterziste” da tradursi in attivi anche per l’Italia e altri paesi.

In teoria, si tratta di un risultato positivissimo: nonostante la crisi e la riduzione dei livelli produttivi, le esportazioni sono enormemente cresciute. Quindi nell’Unione sono arrivati un sacco di capitali in più, che avrebbero potuto e dovuto trasformarsi in investimenti e/o in maggiore spesa per consumi.

In pratica è un guaio, perché questo “guadagno” risulta da una riduzione drastica delle importazioni, ossia dalla riduzione enorme della domanda interna (salari, pensioni e prestazioni sociali sono congelati o in calo ovunque) e in parte anche dalla caduta del prezzo del petrolio (che l’Europa produce in quantità irrilevanti).

Il “sovrappiù” resta dunque congelato – sul piano dell’economia reale – e circola soltanto nei mercati finanziari, traducendosi in rivalutazione della moneta unica, dunque anche in deflazione. Che, ricordiamo, non è affatto il paradiso, perché i prezzi in calo “scoraggiano” gli investimenti (nessun imprenditore impegna soldi sapendo che ci rimetterà qualcosa) e fanno rinviare persino i consumi di beni “durevoli” (non di immediata necessità).

Tra le altre conseguenze negative, questo eccesso di surplus – dunque di capitali in ingresso non utilizzati per la produzione – vanifica in buona parte gli sforzi della Bce, che immette liquidità nel sistema per cercare di rianimare un po’ l’inflazione. Non a caso Mario Draghi, rispondenso due giorni fa ai critici tedeschi della sua politica monetaria ultraespansiva, spiegava che «Se le banche centrali non lo facessero, se tenessero i tassi (nominali, ndr) a livelli troppo alti rispetto ai loro livelli reali, investire non sarebbe attraente, perché il costo del credito sarebbe più alto dei ritorni. L’economia resterebbe bloccata nella recessione».

L’ossessione ordoliberista per il surplus e l’odio per la spesa (e per i salari alti) produce insomma l’esatto contrario del suo obiettivo dichiarato (una crescita ordinata e senza troppi debiti). In modo niente affatto paradossale, infine, una politica di bilancio pensata per abbattere il costo del lavoro e aumentare i profitti delle banche si traduce – sì – in una compressione generale dei salari, ma anche in una caduta di redditività delle banche, inchiodate dai bassi tassi di interesse “indispensabili” per non fa congelare completamene quel poco di economia che resiste. Tutta orientata alle esportazioni.

Sorge il dubbio che i vertici della Troika non siano soltanto dei criminali, ma anche degli inguaribili cretini.

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Euro forte e surplus Ue: il virus che colpisce banche e lavoro

Federico Fubini

Se c’è un nesso fra la faticosa ripresa dell’area euro e la diffidenza che circonda le sue banche, è in un passaggio comparso ieri a pagina 177. Non se ne parla quasi mai. Di rado qualcuno controlla il contenuto di quella riga, nelle previsioni economiche che la Commissione Ue presenta ogni pochi mesi. Eppure è il più esplosivo, letteralmente, perché parla della posizione dell’eurozona verso il resto del mondo. E aiuta a capire perché l’Italia, la Spagna o la Germania non riescano proprio a scrollarsi di dosso la minaccia di una corrosiva deflazione dei prezzi; e perché molte banche non ce la stiano facendo a guadagnare abbastanza da risanare i bilanci impiombati dall’eredità della recessione.

Il saldo delle partite correnti – gli scambi di beni, servizi, interessi e dividendi – è probabilmente il teatro della metamorfosi più radicale che la zona euro abbia conosciuto da prima a dopo la crisi. Quel dato resta inchiodato in un segno più anno dopo anno. In una prima fase la sua graduale trasformazione ha aiutato a tamponare le ferite aperte in Spagna, in Grecia o in Italia. Da qualche tempo però questo numero nascosto a pagina 177 di un rapporto di Bruxelles alimenta la deflazione, rende più fragile la ripresa e erode il terreno su cui poggiano le banche. Quelle tedesche tanto quanto le italiane, come si è visto ieri quando il titolo di Unicredit ha perso il 4,6%, Mps il 7,5%, Deutsche Bank il 5,9% e Commerzbank l’8,3%.

Quel dato sulle partite correnti è esplosivo semplicemente perché è così che è andata in questi anni. È deflagrato. L’attivo dell’area euro verso il resto del mondo era di 34 miliardi nel 2009, ma da allora ha preso a crescere fino a moltiplicarsi per undici. Per quest’anno la Commissione Ue prevede che sfiorerà i 400 miliardi di euro – il 3,3% del reddito dell’area – e anche nel 2017 salirà. È una delle poche revisioni al rialzo che Bruxelles abbia presentato ieri. Ed è ormai una distorsione di fondo nell’economia globale, per la carenza di investimenti e consumi degli europei e non per eccesso di export. La Germania contribuisce per circa due terzi al surplus dell’area: il suo attivo delle partite correnti è cresciuto negli anni della crisi da 144 a 265 miliardi. Quasi tutto questo saldo attivo tedesco è ormai realizzato fuori da Eurolandia e resta su livelli tipici, di solito, di una monarchia petrolifera del Golfo. Contribuiscono agli squilibri però anche l’Italia (passata da un deficit di 30 miliardi a un surplus di 35) o la Spagna.

L’effetto è determinante quanto nocivo, per le banche così come per l’occupazione. Quell’eccesso di surplus smonta in modo subdolo ciò che la Banca centrale europea sta cercando di costruire con le misure di emergenza degli ultimi due anni contro l’avvitamento dei prezzi. Un attivo delle partite correnti da 400 miliardi l’anno significa che ogni mese, in media, oltre 30 miliardi in più affluiscono verso l’euro rispetto alla liquidità in uscita dall’area. Sono gli acquisti di beni europei all’estero, ma soprattutto sono i mancati acquisti di beni di consumo o investimento degli europei dal resto del mondo. Il risultato è un costante, strutturale eccesso di domanda internazionale di euro, giorno dopo giorno. Si spiega così che la moneta unica si sia rivalutata del 9% sul dollaro negli ultimi cinque mesi (ieri a 1,15 dollari). È successo malgrado un tasso di crescita un terzo più veloce negli Stati Uniti rispetto all’Europa. È successo, soprattutto, anche se la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi d’interesse americani mentre la Bce faceva l’opposto: ha spinto gran parte dei rendimenti del denaro in Europa sottozero, e ha inondato l’economia di moneta sempre più abbondante. Ma proprio la rivalutazione dell’euro favorita dal surplus esterno è una potente spinta in senso opposto: spinge l’inflazione verso lo zero (e sotto), perché riduce i prezzi dei beni importati e rende più costoso e scarso l’export e l’occupazione che vi è dietro.

Un malessere del genere ha preso anche in Giappone: la banca centrale di Tokyo continua a iniettare liquidità nel sistema, ha portato i suoi tassi sotto zero, eppure lo yen si sta rivalutando sul dollaro (anche) perché il surplus esterno del Paese è alto e in crescita. Forse è il destino di società con molti anziani, poco propensi a consumare e meno ancora a investire. Di certo, è un virus subdolo che colpisce in primo luogo le banche. Quando un’economia prende questa forma – eccesso di risparmio, moneta cronicamente forte, prezzi gelidi – i tassi d’interesse si adeguano. Cadono verso lo zero anche sulla lunga durata. Oggi i titoli di Stato tedeschi a 10 anni rendono lo 0,2%, i giapponesi sono addirittura negativi. Le banche non guadagnano, perché non c’è margine di interesse sui prestiti estesi ai clienti. Si sviluppano così nel tempo gli istituti-zombie, per inedia di profitto in un ambiente deflattivo di consumi insufficienti e eccesso di risparmio inerte. Ieri la svizzera Ubs e la tedesca Commerzbank hanno trasmesso uno choc ai mercati quando hanno comunicato risultati dei primi tre mesi 2016 molto al di sotto delle attese. Di colpo gli investitori si sono ricordati che le banche sono fragili anche in Germania, benché in Italia lo siano di più. Due Paesi simili più di quanto pensino, dopotutto.

 

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