Non si può fare. Il rapporto del 3% tra deficit e Pil non va superato. Mai. Questo è uno dei “mantra”, quasi un dogma, che più spesso vengono alla mente quando si parla di Unione Europea. Per rispettare questo parametro ogni provvedimento “lacrime e sangue” è consentito: lo sappiamo bene in Italia. Ad esempio, per ricordare un recente intervento macroscopico, lo sforamento di qualche decimo ci costò l’aumento dell’IVA dal 21% al 22%.
Un parametro così vincolante e così perentorio (il 3%!) avrà sicuramente una origine scientifico-economica inattaccabile, frutto di studio, analisi, sperimentazioni, modelli matematici perfezionati fino allo sfinimento… assumersi la responsabilità di imporre ad uno Stato pesanti interventi finanziari – molto spesso nel segno dell’austerity – certamente troverà fondamento e sostegno in qualcosa di certo, inequivocabile, inattaccabile.
Questo il pensiero che di sicuro avrà attraversato la mente di tutti quelli che si sono posti la fatidica domanda: “Perché il 3%?”.
Qualche anno fa fu diffusa – non tantissimo, eh – la storia di quel parametro: quando ci capitò di leggerla, la sorpresa fu abbastanza forte. Probabilmente il fatto che la notizia non circolò molto dipese anche dall’intrinseca forza “destabilizzante” che un racconto del genere poteva avere in un contesto sociale oggettivamente in difficoltà rispetto alle politiche di austerity dell’UE.
E’ in via di definizione il nuovo governo, e le due forze politiche che al momento sembrano avere la possibilità di formarlo hanno entrambe un passato “antieuropeista”: forse ricordare qualche passaggio può essere di giovamento. La vicenda fu ricostruita qualche anno fa dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung e da quello francese Aujourd’hui en France – Le Parisien, e riportato in Italia da un articolo del Sole 24 Ore.
Primi anni ’80, Francia: dopo la vittoria elettorale, il governo socialista guidato da Mitterand scopre un deficit più sostanzioso di quello dichiarato dalla precedente amministrazione. Contemporaneamente, le promesse elettorali esigono investimenti per essere mantenute: la prospettiva era drammatica, si rischiava di toccare la quota “inaccettabile” di 100 miliardi di deficit. Per limitare in qualche modo le diverse voci di spesa, e la “famelicità” dei vari ministri, Mitterand chiese all’allora vicedirettore del dipartimento di Bilancio del Ministero delle Finanze, Pierre Bilger, di farsi venire un’idea.
A sua volta, il funzionario lanciò la patata bollente a due giovani quadri ministeriali, allora nemmeno trentenni, con competenze matematiche e finanziarie: Dominique de Villepein e Guy Abeille.
Fu proprio Abeille a raccontare quello che avvenne: citiamo stralci delle sue dichiarazioni riportate in un articolo di Repubblica del luglio 2014: “Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile, data l’alta fluttuazione dei cambi e le possibili svalutazioni. Quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo che all’epoca era di 3.300 miliardi. Da qui il fatidico 3%. La Finanziaria si chiuse con uno squilibrio di 95 miliardi. Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò un deficit pari al 2,6% del Pil. Faceva molta meno impressione. L’obiettivo principale era trovare una regola semplice, chiara, immediata per contenere le spese dei ministeri. La regola aveva funzionato bene negli anni Ottanta: i governi francesi non hanno sforato il 3%, tranne nel 1986. E’ stato Jean-Claude Trichet, allora direttore generale del ministero del Tesoro, a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilità”.
Ancora più interessante il racconto fattuale della “nascita” del parametro:
“Dovevamo fare in fretta, il 3% è venuto fuori in un’ora, una sera del 1981. Qualche anno dopo ho lasciato il ministero delle Finanze per lavorare nel settore privato. Immaginavo che ci sarebbero stati degli studi più approfonditi, in particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: “Because it’s there”. Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì”.
E’ chiaro? Un parametro scelto in fretta e furia, per risolvere un problema di contabilità di uno Stato negli anni ’80, diventa dogma di teoria economica per una struttura sovranazionale, rimanendo immutato nel corso di venticinque anni, a fronte di enormi cambiamenti finanziari, politici, sociali, finanche culturali.
Una storia che sa di approssimazione, di pressappochismo, di mancanza totale di visione. Stiamo parlando di una norma cardine del sistema finanziario europeo, sulla base della quale viene deciso quanto e come uno Stato possa spendere.
Ecco, questa è la storia del 3%: una sorta di “Pi Greco” che però non fa riferimento a dati certi come la lunghezza della circonferenza e quella del suo diametro. Si parla di economia, di bilanci statali, di politiche sociali, di variabili di natalità, di politica, di storia che avanza, di crisi economiche di sistema…
Direi il contesto più sbagliato possibile per applicare formulette nate quasi per caso trenta anni fa.
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De Marco
Si, la nascita del criterio è questa ma lo sapevano già tutti. In effetti se un governo è rigoroso può decidere di pagare la penalità di 0,2% per sforare in modo transitorio. Rigore intellettuale e austerità budgetaria sono due cose diverse.
Ma il problema è tutt’altro. Il mio Libro III «Keynesianism, Marxism, Economic Stability and Growth » – 2005, accessibile nella sezione Livres-Books di http://www.la-commune-paraclet.com – è dedicato all’argomento. Nel quadro monetarista – specialmente con la monetizzazione del debito pubblico e la fine del « cloisonnement » bancario – nessuno governo sano di mente può permettersi di fare debito al 3 % in modo perenne. Il pump priming non è mai stato una ricetta di Keynes, solo una semplificazione che oggi è impossibile mettere in opera dato l’estroversione del Moltiplicatore.
In oltre, c’è una pigrizia intellettuale oppure una strategia regressiva taciuta in questa irrazionale pretensione di sforare il 3 %, cioè rifiutare di riprendere veramente il controllo della contabilità nazionale in primis con la spartizione del lavoro e con il controllo pubblico di almeno una parte del credito – in particolare, in relazione al finanziamento del debito pubblico e para-pubblico dunque al margine budgetario necessario per l’intervento socio-economico sostenibile dello Stato.
Per abbassare il debito non si deve necessariamente arrivare ad un avanzo primario del 4% o del 5 % – come vuole la spending review – vendendo tutto quello che rimane da privatizzare. Basterebbe, in ossequio alla Costituzione, ritornare al pieno-impiego e ad una fiscalità meno regressiva.
Paolo De Marco