Si fa più intensa la spinta degli “austeri” per aumentare i tassi di interesse il prima possibile. Il tasso di inflazione europea è al di sopra del 7%, mentre il tasso di di interesse base è a zero, e quello sui depositi presso la Bce addirittura negativo dello 0,50%.
La politica monetaria, a questo punto, dovrebbe più o meno velocemente seguire il coroso preso dalla Federal Reserve statunitense, anche perché un differenziale troppo alto tra tassi Usa ed europei favorisce – come sempre – la fuga di capitali verso il paese con i tassi più alti, aumentando il valore del dollaro nei confronti dell’euro.
Ha aperto le danze, non a caso, il presidente di Bundesbank – la banca centrale tedesca – Joachim Nagel, il successore di Jens Weidmann. “Ritardare un cambio di rotta della politica monetaria è una strategia rischiosa. Più pressioni inflazionistiche si diffondono, maggiore è la necessità di un aumento molto forte e brusco dei tassi”.
E siccome il “nemico” è, per quelli come lui, sempre il debito pubblico, non è mancata la stoccata verso i paesi col maggior gravame: “alcuni governi potrebbero spingere contro una stretta monetaria di entità adeguata, mettendo a rischio l’indipendenza della banca centrale”.
Discorso diretto contro Italia, Grecia, Spagna (e Francia), ma abbastanza infame in bocca a un tedesco, ossia all’unico paese europeo in cui le scelte della Bce vengono spesso sottoposte al giudizio della Corte Suprema di Karsruhe (l’equivalente della nostra Corte Costituzionale) per vedere se corrispondono o no ai criteri costituzionali nazionali.
Insomma: solo la Germania avrebbe il diritto (che presentano come un “dovere”) di condizionare la politica monetaria continentale.
Sulla falriga di Nagel si era già espresso l’omologo finlandese (paese sedicente “virtuoso” sempre in prima fila sul fronte dell’austerità), ma con parere diametralmente opposto di François Villeroy de Galhau, secondo cui – al massimo – la Bce dovrebbe considerare il ritorno del tasso di deposito da 0,50% a zero.
L’aumento dei tassi avrebbe conseguente pesanti per le economie europee, già sotto stress dopo due anni di pandemia e con una guerra in corso, che hanno ristretto le prospettive di crescita (anzi: stanno facedo intravedere una nuova recessione) in presenza di una forte spinta all’aumento dei prezzi.
Questi timori, in effetti, stanno frenando la Bce a intraprendere la strada dell Fed, ma è chiaro che non c’è una visione comune della politica monetaria perché ogni paese si trova in condizioni economiche profondamente diverse. Un po’ come sulla questione del gas russo, che pesa soprattutto per chi ne dipende di più…
Ma “i mercati”, come si dice, utilizzano le informazioni sui diversi interessi per fare quelli degli investitori privati. E al momento stanno cominciando a scaricare le proprie “posizioni” sia nell’azionario che sui titoli di stato – specie quelli europei, e in primo luogo dei paesi più indebitati – dando vita così a un fenomeno piuttosto raro. Di norma, infatti, i due settori seguono dinamiche opposte, compensandosi in qualche modo a vicenda.
In questo caso, invece, la fuga avviene chiaramente dai mercati europei (e in parte asiatici) verso quelli statunitensi. Ma non per questo Wall Street sta passando un ben momento. Il che è a sua volta un’altra “novità”. E non sembra positiva…
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