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Il “peccato originale” dell’economia aziendale

Alla Scuola di specializzazione di Roma3, il Professor Manni, nei suoi sermoni liturgici sull’economia aziendale, era solito richiamarsi a uno dei fondatori di questa disciplina, vale a dire Gino Zappa, allievo di Fabio Besta, evidenziandone il metodo scientifico, nell’analizzare i fatti di gestione.

Tale disciplina ha avuto la sua espansione a macchia d’olio, nei primi anni ’90 del secolo scorso, quando gli ospedali vennero trasformati in “aziende”, le USL in ASL, quando il modello aziendalista incorporò tutti gli Enti del Terzo settore e inglobò le stesse famiglie nel modello di aziende di consumo.

A completare il quadro, ci pensò la scuola pubblica, che rimodulò la docimologia sui crediti e sui debiti.

Il far di conto è un’attività che affonda le sue radici nel mondo antico e prende corpo là dove si presenta la necessità di misurare le transazioni commerciali.

Nella divisione del lavoro assunsero importanza e prestigio sociale lo scriba in Egitto, il logista in Grecia e il rationale a Roma; ma le tecniche contabili fecero un notevole passo in avanti, quando nel Medioevo Leonardo Fibonacci sostituì i numeri romani con quelli arabi e in pieno Rinascimento, quando Fra’ Luca Pacioi formulò per la prima volta il metodo della partita doppia.

Ogni transazione, ogni fatto di gestione, viene analizzato sia sotto l’aspetto economico che quello finanziario. I conti finanziari e quelli economici s’intrecciano tra di lor in modo sistematico e l’aspetto finanziario non è separato da quello economico.

Qualsiasi acquisto genera un sacrificio, una variazione economica negativa che è misurata da una variazione finanziaria passiva, al contrario, qualsiasi vendita è un beneficio, una variazione economica positiva che è misurata da una variazione finanziaria attiva. Il ciclo economico è sfasato rispetto a quello monetario, pertanto sorgono debiti e crediti di regolamento.

Conti economici e finanziari confluiscono nel Bilancio, in prospetti diversi: nel “Conto economico”, la differenza tra le componenti positive del reddito d’esercizio e quelle negative corrisponde a un utile, un pareggio o una perdita.

Fin qui il discorso segue il filo logico dell’algebra, la Ragioneria tende a misurare in modo preciso e neutro, non si vede il fine dell’azienda di produzione orientata al mercato, né tanto meno si percepiscono i rapporti di forza che caratterizzano le forme limitate e circoscritte degli scambi commerciali, nelle epoche storiche che precedono il modo di produzione capitalistico.

Ma qual è il fine istituzionale dell’azienda di produzione?

Il fine consiste nel conseguire il massimo profitto, mediante la produzione di beni e servizi destinati al mercato; la soddisfazione dei bisogni dei consumatori è secondaria, essa si verifica se e soltanto se si verifica la prima condizione, altrimenti la produzione non viene alla luce.

La molla che stimola la produzione è l’incremento del capitale proprio o di rischio, vale a dire la percentuale di utile non prelevata dagli azionisti e destinata all’autofinanziamento; la perdita invece è sinonimo del dissesto del capitale proprio.

Il fine suddetto, in Italia, divenne esplicito in un discorso di Gino Zappa nel 1926 all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e pubblicato nel 1927. In quel Manifesto vengono delineati i nuovi principi dell’economia aziendale, intesa dal Maestro come la scienza che studia le condizioni di esistenza e le manifestazioni di vita delle aziende.

Il merito di Gino Zappa è stato quello di fondere la Ragioneria, la Gestione e l’Organizzazione, nella sua visione le tre discipline s’ integrano a vicenda e interagiscono tra di loro; non sono altro che sottoinsiemi di quell’unico sistema che è l’azienda.

Il fine istituzionale coincide con quello aziendale: il valore degli esiti della produzione deve avere una funzione rigeneratrice, rispetto alle risorse impiegate. Gli innumerevoli discepoli del Maestro, all’ombra dello Stato sociale, contribuirono a diffondere l’idea che il perseguimento del massimo vantaggio di ciascuna azienda avrebbe avuto come conseguenza, non solo il miglioramento delle condizioni di esistenza di tutte le altre, ma anche dell’”intera società”.

In che modo si rileva il massimo vantaggio?

In base ai principi dell’economia aziendale, la differenza tra ricavi conseguiti e costi sostenuti è congrua, quando viene relazionata al capitale investito o agli investimenti alternativi. 

Il rapporto tra capitale proprio e capitale di terzi o di debito esprime l’indice di solidità aziendale e fa entrare in gioco, a sua volta, un altro indicatore sintetico: il leverage o leva finanziaria. Archimede affermò: «Datemi una leva e solleverò il mondo!».

Dalle aziende private a quelle pubbliche, sembra che l’indebitamento crescente abbia trovato terreno fertile, ma le relazioni tra gli indici di Bilancio richiamano il vincolo: ci si può indebitare fino a quando il ROI è maggiore del ROD, cioè fino a il ritorno del capitale investito è maggiore del costo medio del capitale preso a prestito.

Man mano che aumentano gli oneri finanziari, si riduce il risultato operativo e di conseguenza il reddito d’esercizio.

In base ai calcoli di convenienza economica, il rendimento del capitale proprio dev’essere equiparato con quello di altre aziende dello stesso settore o di settori alternativi e qualora non si prevedano sbocchi produttivi nell’economia reale, o i rendimenti del capitale di rischio siano più bassi di quelli derivanti dagli investimenti finanziari, le scelte degli azionisti o dei singoli imprenditori ricadono sulla rendita finanziaria.

La remunerazione del capitale di rischio (profitto) e del capitale di terzi (oneri finanziari passivi), così come gli ammortamenti, gli oneri figurativi, concorrono a determinare il costo complessivo e quindi fissare il prezzo di vendita, per i consumatori finali.

E chi paga per i costi di ricerca e sviluppo e per quelli di Marketing?

La risposta è la stessa: i consumatori finali.

Per non parlare dei brevetti delle case farmaceutiche che fanno lievitare i prezzi a livelli esorbitanti, perdendo completamente il riferimento con i costi di produzione.

Dunque, per l’economia aziendale, la vendita di beni e servizi rappresenta la funzione rigeneratrice del valore, ossia la riproduzione delle condizioni di esistenza dell’azienda, ma tale certezza rimane ancorata al vantaggio monetario degli azionisti, all’incremento del capitale proprio.

Ma cos’è il “capitale proprio” e da dove deriva?

Il capitale proprio è vincolato all’azienda, richiama la proprietà del singolo o di più persone, la presenza di più soci rimanda alla formazione del capitale sociale.

Agli scolaretti viene insegnato che 4 soci s’incontrano e decidono di costituire un’impresa, apportando denaro o beni in natura, tuttavia la trasformazione del denaro e dei mezzi di produzione in capitale è un processo storico, che non può essere banalizzato con un esercizio da manuale, campato in aria.

Infatti, se chiedete ai teorici dell’economia aziendale notizie sul come appare il gruzzolo iniziale, inizieranno a balbettare e sulla scia degli economisti classici, richiameranno il tempo mitico. Per spiegare questo passaggio, Marx, riprende il concetto di «previous accumulation» di A. Smith e lo collega con la parte che esprime il peccato originale nella teologia. Egli scrive, però, che «la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare». (1)

Succede poi che quei 4 giovani intelligenti, promettenti e risparmiatori diano vita a una start up e incontrino 4 sventurati, che hanno dilapidato i propri risparmi e quindi non gli rimane che vendere la propria forza lavoro, chiudendo il cerchio, per avviare il processo produttivo.

Il denaro o i mezzi di produzione iniziali, destinati (gettati) nel processo produttivo, diventano capitale, solo se si verifica una particolare condizione, precisa Marx, cioè la valorizzazione della proprietà apportata, conferita, mediante l’acquisto della forza lavoro altrui.

Nella mente dei sostenitori dell’economia aziendale, la separazione tra i lavoratori, da una parte, e dall’altra «la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro» (2) è data per scontata, è stata, in qualche modo, “naturalizzata”, nonostante le crepe e le crisi dei rapporti capitalistici, a cui essi assistono nel corso del tempo.

Il mito riappare, quando il proprietario di una catena di alberghi racconta che prima di diventare ricco, ha dormito per un periodo di tempo sotto un ponte di una città metropolitana; quando Berlusconi narra che si è fatto da sé ed ha iniziato come intrattenitore sulle navi da crociera, oppure quando si legge che i fondatori di Apple Computer hanno iniziato in un garage e per finanziarsi, Jobs ha venduto il suo pulmino e Wosniak la sua calcolatrice, eccetera.

I nostri eroi carichi di adrenalina, una volta che sono investiti dal successo, che il capitale di “rischio” gli moltiplica i frutti, si scordano che comprano il lavoro dei salariati, di chi sgobba, per far funzionare le loro aziende, negano che dall’acquisto di forza lavoro traggono i loro profitti e negano soprattutto che nel processo di valorizzazione del capitale, a rischiare la pelle siano i lavoratori e le lavoratrici.

Non appena un’impresa chiude i battenti, sbaracca e investe in un altro luogo, i dipendenti finiscono sul lastrico, perdono temporaneamente le “catene del lavoro salariato”, confluiscono nelle maglie delle reti di protezione sociale, per poi ripresentarsi sul mercato del lavoro, in cerca di nuovi acquirenti.

E se gli acquirenti stentano ad impiegare la forza lavoro ridondante, significa che il lavoro necessario, per ottenere una determinata quantità di prodotti, è diminuito o meglio che è aumentata la produttività del lavoro ed esso viene espletato in un altro contesto.

Se osserviamo che molti dei prodotti che utilizziamo quotidianamente in Italia provengono dalle fabbriche cinesi o da altri paesi asiatici, allora bisogna accettare l’idea che tante lavoratrici e tanti lavoratori non trovino un’occupazione, ma anche che ci siano altre braccia a produrre, per soddisfare i bisogni dei consumatori.

Il lavoro è solamente sparito dalle scene del teatrino politico e sociale della Penisola italica e della vecchia Europa, un’operetta infestante a cui hanno contribuito in modo determinante i cultori dell’economia aziendale.

A rigor di logica, infine, se i 4 “eccellenti galletti” decidono di non assumere qualche scellerato, in quanto si presentano nelle vesti di imprenditori si se stessi, ben presto, scopriranno che se passano tutto il tempo a guardare il sole dove tramonta, senza effettuare nessuna attività lavorativa, la loro azienda andrà in malora e cadrà a pezzi.

  1. K. Marx, Il Capitale, libro I, Sezione VII, Editori Riuniti, Roma 1980, p.777.

  2. K. Marx, Ivi, p. 778.

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2 Commenti


  • giorgino

    la regressione nel mito e’ contestata da Marx ad adamo smith, Marx gli contesta un approccio che oggi si potrebbe paragonare a a certe figure della gestalt, che possono apparire tanto come il volto di una vecchia donna nasuta, tanto come le larghe gonne di una giovane ballerina.

    smith altrettanto oscilla tra il punto di vista del capitale complessivo, ed il punto di vista del singolo capitalista o aziendale

    smith e’ scienziato nel primo caso, quando vede che il valore di una merce è dato dal lavoro che contiene, non lo e quando, essendo li lì per comprendere lo sfruttamento, si sposta nella prospettiva banale del singolo capitalista

    anche a considerare la sola riproduzione semplice, dice marx, l’ assunto di smith, per cui la merce contiene come valore il profitto del capitalista, la rendita fondiaria, ed il salario operaio, apre una grossa contraddizione : da dove viene il valore che consente di riprodurre o mezzi di produzione ?

    l’ unica spiegazione, sulla base della visione del valore che ha smith, e che il profitto che vede smith retroceda nella “casella ” relativa al ripristino dei mezzi di produzione, ed il profitto capitalistico venga dalla dalla misconosciuta casella titolata ” sfruttamento” ( il valore d,,’ uso della forza lavoro che il capitale prende gratuitamente.

    ma e qui che smith sdoppia il suo sguardo come si fa rispetto alle figure della gestalt, e regredisce verso il punto di vista de singolo capitalista ( aziendale)

    lo fa osservando che il profitto di un capitalista agricolo, può ben sostituire il cavallo o l’ aratro e la simile strumentazione, ma la spesa per questi strumenti si risolve comunque nel profitto, nella rendita fondiaria, e e nel salario dei settori che forniscono la strumentazione al capitalista agricolo

    ora, secondo marx ciò e contraddetto dal fatto che oltre a rinnovare le proprie strumentazioni, sono tutti i capitalisti a fare i loro profitto nonostante riescano anche a rinnovare gli impianti ( non ad ampliarli, parliamo della riproduzione semplice), in altre parole se il profitto lo spendono per rinnovare gli impianti, non dovrebbe rimanergli il profitto che gli rimane, ma allora da dove viene questo stesso se non dallo sfruttamento ?

    e qui smith regredisce nel mito delle origini eroiche ed indefinite ( i citati quattro amici che dormivano sotto i ponti prima di arricchirsi, o punto di vista del singolo capitalista)

    smith allude infatti agli ” scottish pebbles”, i ciottoli irlandesi, raccolti senza bisogno di mezzi di produzione ma la cui raccolta, organizzata dal capitalista, genera profitto per la sola organizzazione scientifica dei salariati raccoglitori

    se questo settore dei ciottoli irlandesi , coi suoi profitti acquistasse carretti e ceste come mezzi di produzione, tali mezzi , non sarebbero riprodotti ma generati per la prima volta, quindi potrebbero stare nella casella del profitto, pur non essendo capitale monetario

    il settore delle ceste e dei carretti, che per smith già vende la propria merce che contiene come valore il profitto, la rendita fondiaria ed i salari, avrebbe nelle commesse di questo settore retrostante il di più di valore equivalente al rinnovo dei suoi impianti, trasferendo la commessa ai settori successivo, sicche’ infine anche il capitalista agricolo da cui diamo partiti, otterrebbe la sua commessa che gli consentirebbe la riproduzione della sua strumentazione agricola, ferme restando le quote di valore che già incamera in quanto corrispondenti alla profitto, alla rendita fondiaria ed ai salari.

    rispetto a tale elucubrazione, Marx osserva che così il capitalismo ad ogni ciclo dovrebbe ripartire dalla età della pietra, e non si spiegherebbe la riproduzione allargata, ( figuriamoci Tesla e le fabbriche di microchips)

    in effetti smith oscilla , come nella percezione delle figure gestalt, ed in tale faccenda verso il punto di vista aziendale o del singolo capitalista, che animato da spirito proprietario da per scontato che il capitale iniziale e gli impianti ce li mette lui, e quindi sulla loro origine non si indaga, al più vengono dai suoi mitici sacrifici risalenti a quando dormiva sotto i ponti o lavorava come uno schiavo per pagarsi i suoi futuri successi

    ovviamente, a ricorrere alla spiegazione mitica sono buoni anche gli Elkann 4 o non so che generazione degli agnelli, ed il nesso che media davvero l’ apparenza fenomenica ( punto di vista aziendale) e totalità essenziale del rapporto sociale capitalistico ( punto di vista sistemico,) cioè il valore come astrazione reale, resta nascosto in quanto sfruttamento

    il punto di vista mitico, del singolo capitalista, vive nella retorica ignorante e stracciona della retorica dei partiti oggi al governo, che però supportano il grande capitale italiano ed europeo che poi fa davvero fuori i piccoli imprenditori con la concentrazione dei capitali, questa volta insensibile alla comune retorica dei sacrifici mitici ed originari degli imprenditori, grandi o piccoli capitalisti che siano


  • giorgino

    per maggior chiarezza

    ora, secondo marx ciò e contraddetto dal fatto che oltre a rinnovare le proprie strumentazioni, sono tutti i capitalisti a fare i loro profitto nonostante riescano anche a rinnovare gli impianti (non ad ampliarli, parliamo della riproduzione semplice), in altre parole se il profitto (nella accezione di smith) lo spendono per rinnovare gli impianti, non dovrebbe rimanergli il profitto che gli rimane, ma allora da dove viene questo stesso se non dallo sfruttamento ?

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