I guerrafondai che stanno apparecchiando la cosiddetta pace in Ucraina sono in disaccordo su un piatto forte da mettere in tavola. Non la linea di confine del Donbass, né le garanzie Nato per la sicurezza futura. La pietanza su cui il dibattito si fa più sanguigno sono i famigerati asset russi.
Cerchiamo di capire la natura dell’oggetto. Sia prima che dopo la guerra, la Russia ha mantenuto la sua vocazione a esportare merci all’estero. Grazie soprattutto alla vendita di petrolio e gas, l’export netto del paese è positivo da molti anni, con punte del 7 percento e stabilmente sopra il 2 percento del Pil.
La conseguenza è che la domanda di rubli è stata sempre piuttosto elevata. Importatori esteri domandano rubli per comprare merci russe, oppure gli stessi esportatori russi incamerano valute estere ma poi le cambiano in rubli per le transazioni interne. Si viene così a creare un eccesso di domanda di rubli, col rischio di un apprezzamento indesiderato della valuta.
Ecco allora che la banca centrale russa decide di “sterilizzare”. Ossia, per tenere sotto controllo il tasso di cambio, vende rubli e in cambio acquista yuan, dollari ed euro, o anche titoli denominati in queste valute estere. Si spiega così gran parte dell’accumulo di “asset russi”, che in larga misura, non a caso, sono di proprietà della Central Bank of Russia.
Di norma, che questi asset siano depositati a Bruxelles o a Fort Knox o a Pechino, nessuno osa dibattere sulla totale libertà del proprietario di rivendicare la titolarità su di essi e di utilizzarli come crede. Questa “normalità”, tuttavia, viene stravolta quando il capitalismo attraversa momenti che potremmo definire di «ritornante accumulazione originaria». Sono le fasi della violenza imperialista, in cui tutto viene messo in discussione, persino il più sacro dei diritti capitalistici: la proprietà.
Non è la prima volta che accade. Stati Uniti e Ue avevano già “congelato” asset depositati all’estero da autorità monetarie di vari paesi, tra cui Siria, Iran e Afghanistan. Questi mantenevano la titolarità della ricchezza ma non potevano più utilizzarla a piacimento. Di solito un tale “congelamento” costituisce una potente arma finanziaria. Durante un conflitto militare, un paese può aver bisogno di utilizzare valuta estera, per impedire il crollo del tasso di cambio e magari per rifornimenti essenziali, tra cui generi di prima necessità. Bloccando i suoi “asset”, dunque, si può realmente mettere in ginocchio una nazione.
Nel caso della Russia, tuttavia, le cose non andate come l’Occidente sperava. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin, la Cina ha incrementato di oltre il 65 percento l’interscambio con l’economia russa. E un aumento di proporzioni simili è avvenuto, guarda caso, con l’intera area Brics. Un risultato di questa maggiore integrazione è che la Russia non ha subìto stravolgimenti del saldo di bilancia commerciale.
Di conseguenza, a Mosca non hanno tanta urgenza di riprendere il controllo degli asset che dal 2022 Ue, Stati Uniti e gli altri del G7 tengono “congelati”. Il problema di diritto proprietario è cruciale ma Putin non ha fretta di risolverlo, può continuare a bombardare l’Ucraina con tutta calma.
Ecco allora spiegato il tentativo di “escalation finanziaria” da parte di vari paesi europei. Non basta più congelare, bisogna confiscare gli asset russi, che debbono diventare vere e proprie riparazioni di guerra a fondo perduto. Dal Regno Unito all’Estonia, la proposta è di passare direttamente all’esproprio.
A ben vedere, si tratta di una posizione opposta a quella degli Stati Uniti, che suggeriscono di utilizzare gli asset russi non come donazioni riparatrici ma al contrario come investimenti remunerativi da attuare in Ucraina, con la partecipazione delle oligarchie russe e dunque con il pieno consenso di Mosca. Orrida ipotesi per i capitalisti europei, che già reputavano l’Ucraina “cosa loro”.
È questa una partita chiave per comprendere l’evoluzione dei rapporti futuri tra gli imperialismi europei e quelli concorrenti di Stati Uniti e Russia. Con il monito della Bce che potrebbe fungere da ago della bilancia. Lagarde avvisa: se si mette in discussione il diritto di proprietà denominate in euro, si mette in crisi la fiducia mondiale intorno alla moneta unica.
In fin dei conti, è un «whatever it takes» adattato alla nuova epoca imperiale: fare tutto il necessario per salvare l’euro, al limite anche lasciare l’Ucraina al suo destino.
* da il manifesto
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