L’idea di fare dell’Italia un gigantesco sponsor per i due marò: il paese che sembra una scarpa va in trasferta
L’Italia è quel gigantesco bar sport in cui, quando si potrebbe pure parlare di sport, si preferisce parlare d’altro. Di politica internazionale, ad esempio: l’importante è farlo con la stessa leggerezza. Così, gli ambienti più reazionari del Belpaese hanno avuto la folgorazione. Sarà il caldo, sarà lo stress, ma l’idea è quella di far diventare la nazionale italiana uno sponsor per la liberazione dei due marò. Avete presente Tommie Smith e John Carlos che alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 si fecero immortalare con il pugno alzato sul podio come «alfieri di una razza povera e discriminata cui l’America concedeva dignità solo in cambio di successi sportivi» (cit. Matteo Patrono)? Ecco, in mancanza di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ancora bloccate nelle residenze italiane in India in attesa di giudizio, si vorrebbe delegare a Buffon e agli altri un qualche gesto più o meno clamoroso per far presente al mondo che in Italia c’è questo problema. Magari con una coccardina gialla da mettere sul braccio. Eccolo il colpo di genio. Il paese che sembra una scarpa va in trasferta.
Il potenziale trash di un’operazione del genere è effettivamente notevole, come d’altra parte il sottovalutare – anzi, il non considerare proprio – che l’Italia con il Brasile ha ancora in sospeso la vicenda di Cesare Battisti. Al di là delle due questioni – Battisti e i marò – a nessuno è ancora venuto in mente di chiedersi perché nessuno al mondo vuole mandare la gente a farsi processare in Italia. E, in fondo, le notizie degli ultimi giorni non sono affatto edificanti, in questo senso. A scorrere le cronache giudiziarie viene fuori che si vorrebbe processare Erri De Luca per un’intervista in cui ha criticato la Tav, mentre a Varese si fa di tutto per non punire chi ha ucciso Giuseppe Uva (gli uomini in divisa? No, loro hanno solo abusato della propria autorità, che non vuol dire aver ammazzato qualcuno, dice la procura. Resta un fatto: prima di essere arrestato, Uva era ancora vivo). È vero che nei tribunali non si scrive la storia, e tutto quello che esce da un’aula può, al massimo, definirsi parziale e contraddittoria come versione dei fatti, ma lo stato di diritto in Italia ha qualche evidente problemino.
Quando i due marò tornarono in Italia ai tempi del famoso ‘permesso premio’ furono addirittura ricevuti al Quirinale, mentre Fratelli d’Italia aveva già in mente di metterli in lista per le politiche. Ai margini, il ministro degli Esteri il cui cognome è un genitivo, Giulio Terzi di Sant’Agata, illustrava ai giornali il suo memorabile piano, evidentemente frutto di tutti gli anni passati a fare l’ambasciatore: abbiamo chiesto in ginocchio agli indiani di ridarci ‘sti due ragazzi per le vacanze di Natale e ora, tié, col cazzo che li rispediamo indietro. Per quanto assurdo possa sembrare, questo era il piano del governo Monti.
Casapound, in un tripudio di bandiere sotto Montecitorio, dichiarò addirittura guerra all’India, tra ipotesi di complotto – memorabile il finto perito che dimostrava l’innocenza dei due grazie a delle immagini riprese dai telegiornali e da qualche rivista scandalistica –, patrio orgoglio ferito e immancabili magliette giallo canarino, tipo la Fermana. Ma nel frattempo deve esserci stato qualche problema con i traghetti per Mumbai…
Quale paese avrebbe potuto pensare che i due marò avrebbero dovuto affrontare un «equo processo» in Italia? Su Cesare Battisti pure sono stati usati litri d’inchiostro per far presente che il processo a suo carico non era esattamente un esempio di giurisprudenza e che le prove a discarico superavano per massa ed entità quelle a carico: per tutta risposta fu proposto di bruciare i libri degli scrittori che sostenevano questa tesi. Ripetiamo: chi è che dice che in Italia si fanno processi equi?
A questo punto vi chiederete: ma tutto questo che c’entra con i mondiali di calcio? Niente, come i marò. Non c’entrano proprio niente.
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