Missili, razzi e kalashnikov trasportati su due navi passeggeri dalla Sardegna a Civitavecchia. Destinati a chi? Forse ai ribelli di Bengasi, in Libia. Un trasporto che risale a maggio e di cui si sa poco o nulla. E non sarà facile ricostruirne i contorni perché, riferisce oggi il quotidiano La Repubblica, a richiesta di chiarimenti, la Marina ha risposto: la presidenza del consiglio ha apposto il segreto di Stato sulla faccenda. Si parla – riferisce Repubblica – di 30.000 fucili mitragliatori, 32 milioni di proiettili per Ak-47, 400 Fagot terra-aria, 5.000 katiuscia. L’arsenale sarebbe stato portato via con normali traghetti di linea, prima sulla tratta La Maddalena-Palau e poi sulla Olbia-Civitavecchia. Il trasporto risale al 18-20 maggio scorso, la procura di Tempio indaga, convoca diversi ufficiali della Marina, ascolta il personale della Tirrenia e della Saremar, le due compagnie coinvolte loro malgrado nella spedizione.
Gianni Cipriani sull’agenzia Nena News del 4 luglio così riportava: “La prima nazione a fornire segretamente di armi gli insorti della Cirenaica è stata proprio l’Italia. Infatti, dopo l’iniziale imbarazzo di Berlusconi nel dover abbandonare Gheddafi, l’Italia ha compreso che un eccessivo attendismo l’avrebbe sfavorita e ha cercato di recuperare mettendosi a disposizione del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi. E come lo ha fatto? Inviando un carico di armi “travestito” da aiuti umanitari. Nella prima settimana di marzo casse e casse di pistole, fucili, mitra e relativo munizionamento sono state fatte arrivare in Cirenaica via mare, trasportate da unità della Marina Militare. Per essere più precisi si trattava di armi leggere prelevate dai depositi della Sardegna, in particolare La Maddalena e Tavolara, per il semplice motivo che quelle armi ufficialmente non sono “mai esistite” e quindi potevano tranquillamente prendere il largo. Una parte dell’armamento inviato era di prima qualità. Altre armi, donate a suo tempo dagli americani all’ex Sismi, erano assai più antiquate, ma comunque adeguate per armare bande di insorti irregolari. Si trattava, per intenderci, delle armi custodite da quelle strutture della nostra intelligence che, più o meno, facevano riferimento al vecchio dispositivo di Gladio”.
Trasportare armi e munizioni su navi civili, piene di inconsapevoli passeggeri, per mantenere “coperte” le operazioni dei servizi segreti, purtroppo non è una novità di questi mesi. La memoria va ai traffici nel porto di Telamone (Argentario) o al caso più drammatico e sanguinoso della esplosione del traghetto “Moby Prince” nel porto di Livorno nel luglio del 1991. vedi la scheda:
Qui sotto una ricostruzione della vicenda della Moby Prince scritta da Erasmo De Angelis
È L’ALBA TRAGICA dell’undici aprile del 1991. Nel piccolo spazio di coperta della bettolina che fende le onde del mare livornese e ci fa scivolare verso quella tragica camera ardente che è diventato il traghetto Moby Prince, ormai del tutto annerito e in fiamme, c’è un portuale che si tormenta. “Adesso le hanno portate via, le hanno fatte sparire!”, sbotta rabbioso. Cosa? Chi?, chiediamo. “Le navi americane…erano cinque le navi militari americane… erano qui ieri sera e dovevano scaricare a Camp Darby. Sparite!”.
Sparite, appunto. Dodici anni dopo, quella strage con 140 morti carbonizzati, arsi vivi o soffocati dal fumo, la più grave tragedia nella storia della marineria italiana, torna alla ribalta insieme al suo doppio, la base statunitense di Camp Darby. La base è a due passi da qui, al Tombolo. È il più grande arsenale di George W. Bush all’estero, da qui provenivano le munizioni usate in Iraq nel 1991 e la maggior parte delle bombe cadute sulla Serbia nel 1999. La strage e la base. Legate da una crepa che può allargarsi o inesorabilmente restringersi, e da una domanda, proprio quella che frullava nella testa di quel portuale: dove erano posizionate quelle navi militari al momento dell’incidente?
Già, dove erano posizionate? Chi lo sa? Possibile che non esista uno straccio di documento, di tracciato radar, di foto satellitare, che possa chiarire il dubbio? Possibile che quella sera maledetta del 10 aprile 1991 non vi fosse un solo satellite militare in orbita e in funzione di controllo, quando il traghetto della Navarma si schiantò contro la superpetroliera Agip Abruzzo, nella rada di Livorno? Possibile che, dopo tre processi, la nebbia avvolga ancora tutto e tutti e che dobbiamo accontentarci del destino cinico e baro? Perizie e documenti ufficiali agli atti dei processi parlano di cause tecniche, distrazione, addirittura nebbia. C’è chi ha parlato anche di traffici di armi o di carburante che erano in corso a quell’ora nel porto di Livorno. Già, perché sono rimaste sullo sfondo le imbarcazioni militari che facevano la spola tra il porto e Camp Darby?
Abbiamo chiesto per anni lumi all’ambasciata Usa a Roma e, con nostra grande sorpresa, è ora giunta una riposta ufficiale, inviata al gruppo della Margherita nel Consiglio Regionale della Toscana. È l’unico documento ufficiale statunitense sull’incidente del Moby Prince. È una lettera del governo Usa, firmata dal Capitano di Vascello della Marina Militare John T. Oliver capo ufficio responsabile dell’avvocatura militare del Dipartimento della difesa degli Stati uniti. I militari si dicono certi che “il governo degli Stati uniti abbia ampiamente contribuito alle indagini ufficiali svolte dalle autorità italiane”.
“Niente radar a Camp Darby”
Aggiunge il Capitano Oliver: “Sono convinto che non vi sia altro in possesso del governo americano che possa gettare luce sul disastro del Moby Prince”. Ma la risposta getta poi più di un’ombra sulla più grande santabarbara statunitense fuori dai confini nazionali: “Camp Darby – si legge ancora – non è in possesso, né lo era all’epoca, di attrezzature in grado di intercettare le comunicazioni radio del Moby Prince. Poiché non si tratta di una base portuale, Camp Darby non ha motivo di intercettare le comunicazioni che le navi trasmettono a terra. Allo stesso modo Camp Darby non è dotata di attrezzatura radar… Il governo Usa non aveva alcun motivo di monitorare il porto di Livorno con un sistema di immagini satellitari e non lo stava facendo. Non sono quindi disponibili immagini o registrazioni di alcun tipo”.
Il Dipartimento della difesa chiarisce poi definitivamente: “Non vi erano navi della Marina militare Usa nel porto di Livorno la notte dell’incidente. Vi erano, al contrario, cinque navi merci noleggiate dal Comando Trasporti Militari Usa nel porto, una delle quali dovette essere rapidamente allontanata perché minacciata dalle fiamme del Moby Prince… le autorità italiane hanno avuto la possibilità di interrogare i capitani e gli equipaggi delle cinque unità nel corso delle indagini ufficiali”. La missiva così si conclude: “A nome del Presidente degli Stati uniti e dell’ambasciatore Usa in Italia desidero rivolgere a Lei e alle famiglie delle vittime l’espressione della mia comprensione per le perdite e il dolore causati dalla continua incertezza sullo svolgersi degli eventi. Sfortunatamente però non siamo in possesso di alcun ulteriore elemento che possa spiegare la tragedia”.
Pur apprezzando la disponibilità dell’ambasciata e del Dipartimento della difesa, prendiamo atto che, dopo due processi in primo grado [tutti assolti] e un processo di appello [con la condanna, prescritta, di un marinaio dell’Agip Abruzzo], i misteri che ancora avvolgono la tragedia restano tali e ricordano molto da vicino quelli della strage di Ustica. È davvero strano infatti che, pur avendo ben cinque navi militarizzate cariche di armamenti e munizioni alla fonda all’interno del porto di Livorno, e al termine dell’operazione di guerra “Desert storm”, il governo Usa non abbia predisposto un sistema di controllo e di monitoraggio satellitare del porto e, soprattutto, non esistesse un sistema di comunicazione via radio in grado di coordinare le delicatissime operazioni militari in mare tra Camp Darby e la Capitaneria del Porto. Se ciò fosse vero, alla vigilia della guerra in Iraq, dovremmo tutti essere preoccupati per le condizioni di elevata insicurezza del porto livornese.
Le uniche due certezze che restano, a questo punto della nostra storia, riguardano la lentezza assassina dei soccorsi [il traghetto bruciava nella rada, i primi soccorritori sono giunti con un ritardo pazzesco e nessuno si è potuto salvare] e l’impossibilità di raggiungere un qualche credibile spiraglio di verità. Il Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, chieda al suo amico Bush di collaborare, perché è del tutto evidente che esistono tracciati e foto satellitari. Ci dicano, in particolare, dove erano posizionate almeno le tre navi, “Cape Flattery”, “Cape Breton” e “Gallant 2”. È assai probabile che in quelle foto e in quei tracciati si nasconda il segreto di quel tragico speronamento. Nessuno può escludere, infatti, che una delle navi-arsenale di ritorno dalla Guerra del Golfo – che al momento dell’incidente stazionavano, tutte, nella rada livornese navigando con codici militari senza alcun coordinamento con la Capitaneria del porto – possa essere divenuta un ostacolo improvviso sulla rotta del Moby Prince per una manovra incauta e non comunicata.
Dopo anni di silenzio è l’ora di aprire gli archivi, anche per eliminare qualsiasi dubbio sul ruolo attivo delle navi nella strage senza colpevoli. Soprattutto, è interesse del nostro governo fugare ogni dubbio sui sistemi di sicurezza nel porto livornese, alla vigilia di un possibile conflitto in Iraq. Ancora oggi il traghetto Moby Prince, costruito nei cantieri inglesi di Birkenhead, entrato in esercizio in Italia l’8 maggio 1986, con stazza lorda di 6187 tonnellate e quattro motori entrobordo che consentivano una velocità di 19 nodi, continua a bruciare accanto ai bunker di Camp Darby. Senza un colpevole.
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