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Il treno blindato contro il lavoro

Il governo Monti conferma la sua natura “extra-territoriale” e la sua missione: rendere il lavoro una condizione schiavistica sulla base del più antico dei ricatii: se vuoi mangiare – poco – devi chinare la testa e rinunciare a essere una persona pensante sul posto di lavoro. Potrai sforgarti – poco – fuori di lì, quando tornerai “libero” di illuderti di essere un cittadino titolare della “sovranità”. Che però è già stata cancellata proprio dal governo in carica.

Sottolineiamo una frase attribuita a Monti da Roberto Mania di Repubblica. “Siamo stati chiamati per fare queste cose”, ripete il Professore in questi giorni ai suoi diversi interlocutori. “Dobbiamo farle anche senza l’accordo di tutti. Questo è il nostro compito altrimenti non ci avrebbero chiamati. Tra un anno ce ne andremo. E questa è pure la ragione per cui non possiamo accettare veti”.

Sarebbe interessante, per un popolo davvero libero, capire chi diavolo mai li avrà “chiamati”. Non ci sono state infatti elezioni, né consultazioni degne di questo nome tra le forze politiche. Nè un popolo in piazza – tranne qualche centinaio di imbecilli convinti di esser stati “liberati” da Berlusconi – a invocare “governo tecnico”.

Tantomeno, dalla massa dei lavoratori sotto qualsiasi tipologia contrattuale, si era alzata la richiesta di abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; quello che protegge dai licenziamenti senza giusta causa. Sembrava scomparso dai progetti immediati di “riforma”. In realtà era un banale “lasciar sbollire” le tensioni inìziali.

 

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Concertazione sul lavoro già sepolta
Francesco Piccioni

Nel rapporto con le parti sociali, una differenza tra il governo Monti e quello Berlusconi è chiara. Il precedente ascoltava solo Cisl e Uil nel corso di cene segrete a Palazzo Chigi. L’attuale non ascolta nessuno. Al massimo, Confindustria e Abi (l’associazione dei banchieri), oltre alla «troika» Bce-Fmi-Ue che tanto «bene» ha sistemato la Grecia.

Lunedì prossimo i tre sindacati confederali verranno ricevuti separatamente dal presidente del consiglio, in compagnia del ministro dello sviluppo Corrado Passera e di Elsa Fornero, ministro del welfare. Ma solo per rendere onore al «dialogo», non certo per rianimare il cadavere della «concertazione». Su questo Monti è stato come al solito chiarissimo. Ribadendo la determinazione ad andare a incontri bilaterali e non «collettivi» anche dopo la protesta del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che via twitter aveva eccepito «gli incontri separati stile Sacconi rendono solo tutto più complicato e più lungo».

Del resto, i pari grado di Cisl e Uil – Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti – si erano affrettati a mostrarsi molto più «concreti», dichiarando che non ne facevano una «questione di forma»: basta che Monti «ascolti le nostre proposte». Anche loro sembrano però destinati a restar delusi, visto che «il metodo» montiano prevede l’illustrazione delle intenzioni del governo (non «l’articolato»), l’«ascolto» delle controdeduzioni sindacali e la «decisione autonoma» finale da parte dell’esecutivo. Stop. Nemmeno il dottor Frankenstein riuscirebbe a far marciare di nuovo la «concertazione» in questo ambiente «tecnicamente» sterile.

E dire che la Camusso aveva continuato a twittare aprendo portoni e autostrade alla «riforma del mercato del lavoro» in preparazione. Che proprio ieri – sia detto per inciso – ha portato alla luce una nuova ipotesi: il «contratto graduale», con flessibilità in ingresso e anche in uscita, magari con i lavoratori anziani messii a part time (e un accenno di assegno pensionistico anticipato). E quindi la Cgil dice sì ad «assunzioni incentivate per giovani e donne con contratto di inserimento formativo» (la «bozza Damiano», in pratica); sì al «contratto nazionale» ridotto a «regolatore universale», delegando «organizzazione del lavoro e retribuzioni in rapporto alla produttività» ai contratti aziendali. Oltre a più consuete proposte sulla necessità di un «piano per il lavoro», «riduzione della precarietà» (un passo indietro rispetto all’«eliminazione»), «investimenti nelle filiere a più alto valore aggiunto», «produttività industriale», ammortizzatori sociali (che il governo medita di finanziare con parte dei risparmi ottenuti dalla mazzata sulle pensioni: 20 miliardi l’anno, a regime). Temi su cui, anche nel direttivo nazionale della Cgil, la dialettica è, come dire, «vivace» fin dal contestato accordo del 28 giugno.

Ma proprio su questo è arrivato l’altolà del Quirinale a ogni velleità di «contrattare» davvero la riforma in gestazione; l’indicazione di «sciogliere i nodi già affrontati» in quell’accordo, poi aggravato da Berlusconi con l’art. 8 della manovra d’agosto sembra ultimativa. Come dire: mandate giù qualcosa di più amaro ancora. Un doppio schiaffo che mette la Cgil in una posizione difficile (Cisl e Uil appaiono come sempre pronti a firmare qualsiasi cosa), non riuscendo a cambiar passo rispetto alle abitudini concertative dell’ultimo ventennio. Di fronte a un governo che sembra sentirsi «in missione per conto di dio», con vincoli di mandato provenienti da un altro mondo; che sembra dare per scontato o fisiologico un incremento del malessere sociale, il ruolo dei sindacati rischia di essere ridotto a quello di un «centro servizi» tra tanti. A meno di non far valere, conflittualmente e in tempo reale, la propria forza sociale.

Ma questi sono problemi del sindacato, che non interessano più di tanto l’esecutivo. Che si trova semmai ad affrontare resistenze ben più consistenti sul capitolo «liberalizzazioni». Nella riunione di ieri – lo stesso Monti, Passera e il ministro delle politiche comunitarie Enzo Moavero, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Vittorio Grilli, viceministro all’economia – sarebbe stato fatto il punto sia per quanto riguarda la necessità di allargare la platea dei settori da «aprire alla concorrenza», sia delle fortissime pressioni contrarie delle varie lobby, coagulate soprattutto in area Pdl.

Le scadenze europee incombono. Il 23 si riunisce l’Eurogruppo, il 30 il vertice Ue straordinario. Monti pensa di poter convincere della bontà della sua azione i partner continentali – in primo luogo la Germania – presentandosi con le «misure per la crescita» già sul trampolino di lancio. E nessuno dimentica che, nella lettera della Bce inviata in agosto, Mario Draghi e JeanClaude Trichet mettevano tra i punti determinanti – oltre a rigore di bilancio, privatizzazioni e liberalizzazioni – «l’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti». Al momento, sfogliando i suoi dossier, Monti deve trovare assai più facile sfondare su quest’ultimo fronte che non sugli altri due. Ma deve portare qualcosa di importante, in quella sede. Lo scalpo del movimento operaio e sindacale, non c’è dubbio, sarebbe un trofeo forse sufficiente a rendere il giudizio dei mercati sull’Italia un po’ meno diffidente.

Sotto questo cielo non sembra nemmeno strano che – secondo l’indagine del Work Monitor Randstad – «un italiano su due è disponibile a considerare l’opzione del trasferimento all’estero» pur di migliorare la propria situazione. Insomma, un serbatoio di emigrazione pronta a salpare. Se non siamo agli anni ’30, c’è però un vago odore di inizio secolo. Ma del ‘900.

da “il manifesto”

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Dati Istat
Tutte le bugie sull’art. 18
Gian Paolo Patta
Non è vero che lo Statuto difende una minoranza di lavoratori. Ed è falso che sia la causa della precarietà

In vista dell’annunciato confronto tra governo e organizzazioni sindacali sul mercato del lavoro, è iniziata la campagna tendente a dimostrare come i lavoratori tutelati dal famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori siano una minoranza privilegiata, la cui esistenza sarebbe la causa primaria della diffusione della precarietà giovanile. Sorvolando sul fatto che gli autori di questa campagna sono gli stessi che, criticando l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro italiano, a suo tempo pretesero l’introduzione massiccia di forme di lavoro atipico, vediamo come adesso stiano forzando i dati sull’occupazione, in senso inverso ma con il fine di sempre: allargare l’area della precarietà e la ricattabilità dei lavoratori.
Esaminiamo alcuni assunti di questa campagna. È vero che i lavoratori a tempo determinato sono la maggioranza? Dai dati Istat sull’occupazione risulterebbe di no: gli occupati dipendenti a tempo indeterminato erano nel 2010 l’87,2% del totale e quelli a tempo determinato il 12,8%.
È vero che i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 sono la minoranza? Sempre dai dati Istat emerge che nelle aziende che occupano fino a 20 dipendenti sono occupati 4.574.000 dipendenti su un totale di 17.110.000. Anche aggiungendo tutti gli 800.000 collaboratori coordinati e 250.000 professionisti (non tutte queste figure sono assimilabili al lavoro dipendente: l’Istat li classifica nel lavoro autonomo), risulta evidente come la maggioranza dei lavoratori italiani siano tutelati dall’art. 18.
Alcuni confondono i dati usando non il numero dei dipendenti ma quello degli addetti: questi ultimi comprendono i milioni di lavoratori autonomi che fanno più che raddoppiare l’occupazione globale delle piccole aziende, mentre lo Statuto fa riferimento a 15 dipendenti e non addetti.
È vero che le aziende che ricorrono ai contratti di lavoro atipici lo fanno per evitare l’art. 18? Sempre dai dati Istat risulta che gli addetti (termine che indica, come già scritto, anche i padroni e gli autonomi medi dell’industria sono 8,7, quelli delle imprese del commercio e alberghi 3,3, costruzioni 2,9 e 2,8 gli altri servizi (compresi quelli alla persona); ora, i lavoratori a tempo determinato presenti nell’industria sono 319.000, mentre quelli del totale dei servizi 1.464.000, di cui ben 974.000 nella categoria altri servizi (che comprendono quelli alla persona). Come si può ben intuire, la maggior parte dei contratti a tempo determinato sono nelle aziende che non applicano l’art. 18.
È vero che si possono sostituire tutte le forme di lavoro precario con unico contratto di inserimento? Impossibile in diverse situazioni: nell’edilizia, che ha un’attività estremamente discontinua e legata ai cantieri, nel turismo stagionale e nell’agricoltura, stagionale per definizione, solo per citare 3 grandi esempi. In questi settori è impossibile assumere tutti a tempo indeterminato, tant’è che esistono, per evitare di non trovare dipendenti, specifiche forme di sostegno al reddito. Esiste poi il complesso dei servizi alla persona in ambito familiare (circa un milione di addetti) e i contratti di formazione, come l’apprendistato che nessuno ha proposto di abolire.
Le proposte in campo tese a limitare l’area di applicazione dell’art. 18 non porteranno pertanto che benefici marginali agli attuali occupati con contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto a quella parte che ha natura strutturale, mentre allargheranno l’area della precarietà introducendo una ennesima nuova figura: il contratto di lavoro a tempo indeterminato in cui non si applica l’art. 18. Ovviamente siamo in presenza di un ossimoro: senza l’art. 18 ogni contratto può trasformarsi con molta più facilità d’oggi in un contratto a tempo determinato. La verità è che l’ampia flessibilità del mercato del lavoro italiano, determinata in primis dall’ampia diffusione del lavoro autonomo e del lavoro nero, è causata dal ritardo del capitalismo italiano nei confronti degli altri paesi europei (Germania innanzitutto) e determina il differenziale di produttività che si è accumulato in questi anni.
Ma questo blocco sociale arretrato è parte integrante del blocco dominante: quindi intoccabile per ragioni politiche e allora non resta che tirare il collo agli operai nella speranza (vana) di recuperare margini di profitto.
da “il manifesto”

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Avanti su concorrenza e opere

Davide Colombo

I ministri lo hanno definito utilizzando il termine più tecnico e neutrale possibile: una ricognizione a tutto campo (un brainstorming, ha detto qualcuno che parla abitualmente in inglese) sull’insieme delle misure allo studio e che dovrebbero dare corpo al decreto “cresci-Italia” da approvare entro la fine del mese insieme con l’atteso disegno di legge sulla concorrenza. Un vertice fiume a Palazzo Chigi (quattro ore, dalle 11 del mattino fino a dopo le 15) con il presidente del Consiglio, Mario Monti, i ministri Piero Giarda, Enzo Moavero, Corrado Passera e il viceministro Vittorio Grilli, per ascoltare le valutazioni tecniche del Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, sull’impatto che le diverse misure potrebbero avere sull’economia e, di conseguenza, sulle priorità che dovrebbero essere adottate. Perché la cosiddetta «fase due» dell’azione di Governo non si esaurirà certo con le misure da varare entro fine mese.
Insomma ministri tecnici da una parte e una autorità tecnica e autorevole dall’altra per un confronto a tutto campo e preparatorio in vista delle scadenze di gennaio, confermate sia pure in via ufficiosa dopo le indicazioni dello stesso Monti nella conferenza stampa di fine anno, perché legate alla fitta agenda europea che si apre venerdì con l’incontro Monti-Sarkozy a Parigi.
Il primo Consiglio dei ministri atteso, quello di venerdì prossimo 13 gennaio, sarà ancora interlocutorio. Ma il successivo (forse il 20 gennaio) potrebbe essere quello utile per il primo via libera delle misure in materia di liberalizzazioni, semplificazioni e infrastrutture, visto che anticipa di pochi giorni l’Eurogruppo del 23 e il successivo Consiglio straordinario Ue del 30 gennaio. Nel mezzo ci saranno, appunto, gli incontri del premier: dopo quello con il presidente francese ne è previsto uno trilaterale con Angela Merkel cui seguirà il 18 gennaio quello con il primo ministro britannico David Cameron. Il confronto sarà sugli emendamenti da perfezionare per l’accordo di dicembre sul «fiscal compact» ma è chiaro che tutti i paesi porteranno al confronto anche le rispettive misure pro-sviluppo messe in cantiere.
Sulle liberalizzazioni italiane, in particolare, dopo le difficoltà incontrate su taxi e farmacie (inserite in manovra ma respinte dal Parlamento), l’intenzione del Governo resta quella di procedere con un intervento più complessivo che ha l’obiettivo di ridurre le restrizioni regolatorie e facilitare la costituzione di nuove imprese. Sono molti i settori che potrebbero essere coinvolti e di cui s’è discusso ieri con Visco: le poste, i benzinai, i servizi pubblici locali e forse anche le edicole. L’intero pacchetto potrebbe essere inserito all’interno del provvedimento sulla concorrenza tanto caro al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà. Tra l’altro entro metà mese il nuovo garante per la concorrenza, Giovanni Pitruzzella, firmerà una nuova segnalazione per indicare i campi in cui è più opportuno intervenire in questa fase. A completare questo quadro sono attese poi le misure di semplificazione amministrativa cui sta lavorando il ministro Filippo Patroni Griffi.
Ma nella prima tranche del «cresci-Italia» è previsto anche il capitolo infrastrutture. Sono allo studio provvedimenti per rafforzare le società di progetto e agevolare l’emissione di project bond. E ancora, l’introduzione del nuovo contratto di disponibilità, tempi certi per le procedure approvative delle opere con un solo passaggio al Cipe del progetto preliminare e un quadro rafforzato degli incentivi fiscali che si completerà con nuove regole per gli investimenti aeroportuali e l’abbattimento dei costi delle grandi opere. E su questo fronte una scadenza operativa ha trovato conferma per la prossima settimana. Con molta probabilità giovedì si terrà una nuova riunione del Cipe che potrebbe sbloccare una serie di opere immediatamente cantierabili e che dovrebbero riguardare soprattutto il Sud. Tra queste potrebbe rientrare l’autostrada Termoli-San Vittore, che collega il Molise e il Lazio. È possibile che all’ordine del giorno venga inserita anche la valutazione finale sul progetto del Ponte sullo Stretto.

L’agenda di Monti
La dead line è l’Eurogruppo del 23 gennaio. Entro questa data Monti vuole approvare in Consiglio dei ministri (probabile il 20 gennaio) le prime misure della fase 2: liberalizzazioni, semplificazioni e infrastrutture. Il 30 gennaio ci sarà il Consiglio straordinario Ue. Nel mezzo gli incontri del premier: dopo quello con il presidente francese ne è previsto uno trilaterale con Angela Merkel cui seguirà il 18 gennaio quello con il primo ministro britannico David Cameron. Il confronto sarà sugli emendamenti da perfezionare per l’accordo di dicembre sul «fiscal compact», ma tutti i Paesi porteranno al confronto le rispettive misure pro-sviluppo messe in cantiere
Sulle liberalizzazioni italiane, dopo le difficoltà incontrate su taxi e farmacie (inserite in manovra ma respinte dal Parlamento), l’intenzione del Governo resta quella di procedere con un intervento più complessivo che ha l’obiettivo di ridurre le restrizioni regolatorie e facilitare la costituzione di nuove imprese. Sono molti i settori che potrebbero essere coinvolti e di cui s’è discusso ieri con Visco: le poste, i benzinai, i servizi pubblici locali e forse anche le edicole. L’intero pacchetto potrebbe essere inserito all’interno del provvedimento sulla concorrenza tanto caro al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà
Sulle infrastrutture sono allo studio provvedimenti per rafforzare le società di progetto e agevolare l’emissione di project bond. E ancora, l’introduzione del nuovo contratto di disponibilità, tempi certi per le procedure approvative delle opere con un solo passaggio al Cipe del progetto preliminare e un quadro rafforzato degli incentivi fiscali che si completerà con nuove regole per gli investimenti aeroportuali e l’abbattimento dei costi delle grandi opere. Giovedì prossimo si terrà una nuova riunione del Cipe che potrebbe sbloccare una serie di opere immediatamente cantierabili al Sud. Tra queste potrebbe rientrare l’autostrada Termoli-San Vittore, che collega il Molise e il Lazio

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da Il Sole 24 Ore

Monti-Cgil, braccio di ferro sul lavoro

Giorgio Pogliotti

ROMA
Prima ancora dell’avvio previsto dopo l’Epifania, il tavolo sul mercato del lavoro è già oggetto di polemiche: la Cgil attacca sollevando questioni di metodo: «Monti non convochi i sindacati separatamente, gli incontri separati stile Sacconi rendono solo tutto più complicato e più lungo». Tuttavia il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, non sembra intenzionata a cambiare l’agenda, procedendo con incontri bilaterali, con una singola organizzazione del sindacato e delle imprese.
La Cgil intervenendo su twitter sollecita un confronto a tutto campo con l’Esecutivo sulla crescita – su liberalizzazioni, lavoro, produttività, contratti e pensioni –, con un Piano del lavoro che preveda «assunzioni incentivate di giovani e donne, la difesa dei posti di lavoro in crisi e ammortizzatori per chi perde il posto, a ogni etá e per ogni azienda». Il sindacato di Corso d’Italia plaude per l’intervento del presidente della Repubblica e per il suo richiamo all’accordo del 28 giugno: «ancora una volta esprime saggezza, si parta dall’unità sindacale». Dal Pd il segretario Pier Luigi Bersani chiede che «la questione del metodo non impedisca di affrontare la sostanza della questione», e lancia un monito: «Veniamo da un’esperienza di divisione del mondo del lavoro che non ha portato a nulla. Voglio credere che nessuno voglia rompere il punto di coesione e di equilibrio raggiunto il 28 giugno». Quanto al tavolo tra Governo e parti sociali, per Bersani va fatto «in forme tali che sia riconosciuto da tutti quelli che devono partecipare, mi sembra una cosa ovvia sulla quale il governo debba impegnarsi».
Cisl, Uil e Ugl gettano acqua sul fuoco delle polemiche: «Al di là della forma, per la Cisl conta la sostanza – avverte Raffaele Bonanni –. Se il Governo vuole avviare una fase esplorativa propedeutica a un negoziato vero, la Cisl non si sottrarrà come sempre a questo confronto. Più degli altri, non bisogna avere paura di se stessi in una trattativa sindacale». Quanto agli incontri separati tra il ministro Sacconi e i leader di Cisl e Uil, Bonanni invita a «lasciare perdere il passato», perché «non serve a nessuno introdurre nel dibattito elementi polemici di divisione che fanno riferimento all’azione del precedente Governo». Per il numero uno della Cisl se l’obiettivo della “fase due” è la crescita «solo attraverso un patto sociale si potranno individuare gli strumenti, le risorse e le responsabilità reciproche per raggiungere questo obiettivo».
Anche per Luigi Angeletti «la forma del confronto tra Governo e sindacati non è importante, quello che conta è che il Governo accolga le proposte delle parti sociali». Per il segretario generale della Uil, sono «i salari, la crescita, l’occupazione i problemi su cui, al di là della forma degli incontri, vogliamo confrontarci con il governo». Sulla stessa linea Giovanni Centrella (Ugl): «Non saranno le modalità dell’incontro con il Governo a farci cambiare idea sulle riforme».
Intanto a rasserenare i rapporti con la Cgil potrebbe contribuire l’iniziativa annunciata dal ministro Fornero che, forte della delega sulle Pari opportunità, annuncia un intervento sulla pratica delle dimissioni in bianco – fatte firmare alle dipendenti al momento dell’assunzione per poter interrompere facilmente il rapporto di lavoro (soprattutto in caso di maternità) – per «restituire piena parità e dignità al lavoro delle donne».

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La sfida: sfoltire la babele contrattuale

ROMA
Semplificare e sfoltire le numerose tipologie contrattuali: è questo uno dei temi che saranno al centro del tavolo sul mercato del lavoro. La fondazione De Benedetti nel 2006 contò ben 44 modalità di assunzione, la Cgil 46, al ministero del Lavoro 34, anche se per Michele Tiraboschi (Adapt) per la gran parte si tratta sostanzialmente di doppioni e quelle realmente disponibili per le imprese sono 13.
Il gran numero di modalità contrattuali disponibili per le assunzioni nasconde spesso abusi, specie nel mondo della para subordinazione è frequente l’elusione dagli obblighi della subordinazione; a preoccupare di più è il fenomeno dei rapporti di lavoro dipendente, qualificati formalmente come collaborazioni continuative autonome o come lavoro libero-professionale. Giovani professionisti, infermieri, archeologi impegnati nei cantieri edili costretti ad aprire una partita Iva, accollandosi così totalmente il costo dei contributi che altrimenti sarebbe ripartito con la committenza. In precedenza molti di loro avevano un contratto di collaborazione a progetto – l’aliquota è stata aumentata al 27% – ma anche questo, in molti casi, era un sotterfugio per mascherare rapporti di lavoro subordinati. Un modo per risparmiare sul costo del lavoro considerando che tra i circa 800mila collaboratori, mezzo milione ha rapporto esclusivo con un solo committente e guadagna in media 8mila euro l’anno. Nel terziario, soprattutto nel commercio, sta crescendo il ricorso all’associazione in partecipazione (i 52mila associati guadagnano in media circa 9mila euro l’anno): alle commesse viene chiesto di sottoscrivere questa modalità contrattuale per condividere i frutti dell’impresa, con la conseguenza che in alcuni casi hanno dovuto pagare le perdite. Tra le tipologie contrattuali che compongono l’universo dei 2,5 milioni di atipici, figurano anche il job on call (lavoro a chiamata, utilizzato per ristorazione e turismo), il job sharing (lavoro diviso tra due lavoratori), lo staff leasing (somministrazione di lavoratori a tempo indeterminato).
Uno studio del dipartimento Mercato del Lavoro della Cgil elenca le 46 diverse opzioni per entrare nel mercato del lavoro: 26 modalità per i rapporti di lavoro subordinato, 4 per i parasubordinati, 5 per i rapporti di lavoro autonomo e 11 per i rapporti speciali, individuando ad esempio 6 rapporti part time fra rapporti di lavoro subordinati, para subordinati, speciali e autonomi. Per la Cgil basterebbero 5 tipologie: il lavoro a tempo indeterminato, l’apprendistato («strumento principe di ingresso per i giovani nel mondo del lavoro»), il contratto di inserimento (o di re-inserimento di chi è stato escluso dal mondo del lavoro), un tipo di rapporto a termine e il part time. «Bisogna aumentare il costo del lavoro flessibile – afferma Filomena Trizi, segretaria del Nidil (precari Cgil) – e le tutele con un sistema di ammortizzatori sociali, diminuendo le tipologie contrattuali». Nella semplificazione contrattuale, per la leader della Uil Temp, Magda Maurelli bisogna «potenziare il lavoro in somministrazione» che «è quello che meglio coniuga la flessibilità con le protezioni e costa di più perchè ha un welfare avanzato sostenuto dalla bilateralità», insieme «all’apprendistato che viene incontro alle esigenze delle imprese e dei giovani».G. Pog.

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Va superato l’articolo 18 non solo per i neo-assunti

Giuliano Cazzola

e Maurizio Castro

Il premier Mario Monti ha annunciato che nella fase 2 (denominata Cresci-Italia) sarà affrontata anche la riforma del mercato del lavoro. Trattandosi di una materia «politicamente sensibile» è bene che il Governo parta con il piede giusto e non si limiti – come sembra, assistendo al dibattito in corso – a ricercare un punto di compromesso tra le diverse posizioni presenti all’interno della sinistra e dei sindacati. Le maggioranze e i Governi di centro-destra hanno sicuramente lasciato un segno in materia di lavoro, non solo nelle passate legislature (dal Libro bianco alla legge Biagi), ma anche in quella in corso a partire dalla legge n. 183 del 2010 (il c.d. collegato lavoro) di cui citiamo soltanto, tra le molte innovazioni, la promozione di forme negoziali di risoluzione delle controversie rese operative dalla sottoscrizione volontaria di una clausola compromissoria individuale (in proposito, è bene ricordare che, terminato nell’inerzia delle parti sociali l’anno loro concesso per definire delle intese attuative, l’iniziativa passa ope legis nelle mani del ministro del Lavoro, in sede di mediazione). Ora, il perimetro della riforma è tracciato sia nella lettera della Bce del 5 agosto, sia nella dichiarazione di intenti presentata, il 26 ottobre, dal presidente Silvio Berlusconi in occasione del G 20. Per non parlare, addirittura, di quanto stabilisce una legge dello Stato: all’articolo 8, il decreto di ferragosto consente alle parti sociali di negoziare soluzioni in deroga, anche per quanto concerne le «conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro». Non si comprende, allora, per quale motivo si debba scomodare la variopinta casistica del «contratto unico»(una soluzione con alta capacità comunicativa, ma troppo «facilona»), magari a tutela differenziata e crescente, quando analoga funzione potrebbe essere svolta, più correttamente, dal contratto di apprendistato. E quando sarebbe arbitrario «unificare» rapporti di lavoro con caratteristiche differenti. I cosiddetti contratti atipici (a termine, job on call, staff leasing, lavoro accessorio, a progetto, ecc.) non nascono dalla protervia di un legislatore «nemico del popolo» e nemmeno costituiscono la causa di una diffusa condizione di precarietà, ma possono servire – se correttamente applicati – a combattere il lavoro sommerso e a cogliere esigenze specifiche difficilmente riconducibili a modelli forzatamente standard (o come si dice adesso «prevalenti»).
È inutile girare attorno al problema: l’articolo 18 dello Statuto deve essere riformato. Lo si può fare in via sperimentale o definitiva. In Parlamento giacciono diversi progetti di legge, meno noti del «pacchetto Ichino», ma altrettanto appropriati. Si potrebbe, per esempio, elevare, per alcuni anni, il tetto dei 15 dipendenti oltre il quale opera la reintegra (Beltrandi); oppure riconoscere al datore soccombente la facoltà di versare una robusta penale in alternativa alla reintegra, sempre facendo salva la nullità dei licenziamenti discriminatori (Cazzola, Della Vedova). Ancora, si potrebbe attribuire una tutela soltanto risarcitoria nel caso di stabilizzazione dei contratti a termine ( Cazzola, Contento) o della creazione di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato nelle regioni del Sud. Queste misure potrebbero essere accompagnate da interventi di outplacement (Treu e Castro). Ma se, finalmente, è scoccata l’ora della revisione, essa non potrà non valere per tutti i lavoratori dipendenti e non solo per i nuovi occupati. Altrimenti non si verrebbe a capo del dualismo del mercato del lavoro, sempre a scapito delle giovani generazioni; e si finirebbe per caricare le imprese di nuovi disincentivi e vincoli per l’uso della manodopera «atipica», senza concedere, in cambio, una maggiore flessibilità in uscita nello stock degli attuali occupati.
Deputato e senatore Pdl

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da Repubblica

Articolo 18, il governo ci riprova. Monti: “Veti non ci bloccheranno”

Il governo alle prese con la riforma del mercato del lavoro: “Ce lo chiede l’Europa”. Secondo i modelli allo studio, la norma anti-licenziamento sarebbe sospesa per tre categorie di neoassunti. Sindacati sugli scudi

di ROBERTO MANIA

Superare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo, a pochi giorni dall’avvio del confronto con sindacati e Confindustria, rientra nell’agenda del governo. Anche se forse non ne era mai uscito. Era stato solo sapientemente accantonato dopo la bufera provocata dalle parole del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che aveva invitato i sindacati a discuterne senza tabù.

D’altra parte è l’Europa (dalla Commissione alla Banca centrale) che ha chiesto all’Italia di cambiare le regole sui licenziamenti individuali, e su quell’indicazione il premier, Mario Monti, non ha alcuna intenzione di fare orecchie da mercante.

“Siamo stati chiamati per fare queste cose”, ripete il Professore in questi giorni ai suoi diversi interlocutori. “Dobbiamo farle anche senza l’accordo di tutti. Questo è il nostro compito altrimenti non ci avrebbero chiamati. Tra un anno ce ne andremo. E questa è pure la ragione per cui non possiamo accettare veti”. Né da parte della Cgil di Susanna Camusso, né da parte dei partiti che hanno dato il loro consenso al programma del governo tecnico fortemente voluto dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.

È una questione di credibilità. “Perché questo è il nostro problema centrale: il deficit di credibilità”, insiste Monti. “Altrimenti – aggiunge – lo spread non calerà mai”. Tra due giorni Mario Monti comincerà il suo tour europeo: prima a Parigi per un convegno, ma dove dovrebbe incontrare anche Nicolas Sarkozy, poi, il 18 gennaio, a Londra con il primo ministro David Cameron, infine il previsto vertice trilaterale Roma-Parigi-Berlino.

Monti si giocherà così la sua partita sulla flessibilità in materia di riduzione del debito in una fase negativa del ciclo economico. E l’ampiezza dei margini di manovra del nostro premier dipenderanno proprio dalle decisioni di politica economica che saprà prendere. Dunque difficile presentarsi al tavolo con Sarkozy e Merkel dicendo che sull’articolo 18 (considerato in Europa un’anomalia tutta italiana) non si può far nulla perché i sindacati non lo permettono e una parte del Pd nemmeno.

Questo, dunque, è il contesto in cui si sta muovendo il governo, convinto di avere una sponda decisiva al Quirinale. Ma questo spiega molto del crescente nervosismo con il quale ci si sta avvicinando agli appuntamenti della prossima settimana tra il ministro Fornero e i rappresentati di tutte le parti sociali.

Il governo ha deciso di incontrare separatamente le singole organizzazioni. Un’impostazione che ha fatto imbufalire la Camusso la quale vede così chiaramente l’intenzione di non voler aprire alcuna trattativa. Ed è esattamente questo il metodo scelto dall’esecutivo. Non la concertazione triangolare tipica degli anni Novanta spesso inconcludente, bensì lo schema del dialogo sociale europeo: si ascoltano le opinioni di tutte le parti in causa su un tema ben delimitato (in questo caso il mercato del lavoro), ma poi si prendono i provvedimenti senza scambi.

Appunto: senza negoziati. Questa è la missione del governo tecnico, secondo la concezione dello stesso premier. D’altra parte è il medesimo metodo che ha portato nell’arco di pochi giorni a una riforma strutturale delle pensioni che i sindacati, e la loro base, hanno finito per subire, praticamente senza reazione, se si esclude uno sciopero di mezza giornata: non era mai successo, dal 1967 in poi, che le confederazioni venissero del tutto tagliate fuori dalla definizione di una legge sulla previdenza. Pure questo è un segno dell’emergenza nella quale opera il governo Monti.

E l’emergenza impone tempi stretti. Monti e Fornero puntano a chiudere rapidamente anche il capitolo del mercato del lavoro. Non c’è comunque ancora una dead-line, di certo non lo è la data del 23 gennaio in cui è prevista la prossima riunione dell’Eurogruppo. “Ma prima si fa e meglio è”, spiegano al Lavoro dove i tecnici stanno preparando la proposta-Fornero.

Formalmente l’articolo 18 dello Statuto (la legge 300 del 1970) non sarà toccato. Continuerà ad essere valido per i lavoratori ai quali (quelli delle imprese con più di quindici dipendenti) già si applica. Per i nuovi assunti, per i disoccupati e per quanti lavoreranno per nuove aggregazioni aziendali, però, cambierà tutto.

Sarà seguita la proposta del “contratto unico” presentata dal senatore del Pd, Pietro Ichino: licenziamento individuale possibile per motivi economici, tecnici o organizzativi ma al posto del reintegro nel posto di lavoro l’impresa dovrà corrispondere al lavoratore un’indennità economica decrescente nell’arco di un triennio durante il quale questi sarà impegnato in un piano di ricollocazione.

La Confindustria sta preparando un confronto sui costi dell’indennità nei diversi paesi europei. Per oggi è previsto un incontro tra la Fornero e Ichino. E i sindacati, per ora fuori dal gioco, protestano.

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