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Liberalizzazioni, tra realtà e propaganda

Il governo dei “professori” ci h messo otto ore per limare un testo che già era abbondantemente noto. Di rilevante, da nostro punto di vista, è “saltata” solo la privatizzazione dell’acqua. Per ora, è bene precisare. Perché l’obiettivo resta quello.

Una prima ricognizione delle misure fatta attraverso “il manifesto” può aiutare a ricostruire il senso di un testo molto vario e discontinuo. Notando come questo giornale, quando dà spazio e voce ai suoi “esperti”, sia molto utile e informativo; mentre quando gigioneggia con le intervistine sdraiate o i piccoli retroscena a là Minzolini sulle tristi vicende interne del Pd o di Sel sia letteralmente sonnifero e illegibile.

 

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L’Italia sotto «lenzuolata»

Galapagos
È arrivata una nuova «lenzuolata» di liberalizzazioni. Ma queste contribuiranno a rilanciare lo sviluppo economico? E soprattutto, ci renderanno più liberi? No: queste deregolamentazioni porteranno qualche euro di risparmio alle famiglie, ma peggioreranno la vita di centinaia di migliaia (forse milioni) di persone distruggendo i rapporti sociali e rafforzando la precarizzazione dei lavoratori. In Italia le corporazioni sono una (brutta) realtà che trova la propria forza in parlamento dove a non essere rappresentati sono solo i lavoratori dipendenti, mentre a cominciare dagli avvocati e dai giornalisti le altre corporazioni resistono a ogni tentativo di riduzione del potere. Monti – è un suo merito – ci sta provando, ma non è detto che ci riesca: Berlusconi ieri ha minacciato emendamenti a raffica in parlamento. Democrazia di ritorno? No, conflitto di interesse sull’assegnazione delle frequenze digitali e paura di perdere la sua base elettorale. Non è l’unica minaccia del cavaliere in crisi d’astinenza di potere: ha annunciato anche di voler tornare al governo (affermando che Monti non ha fatto nulla per risolvere la crisi economica) facendo mancare la fiducia. Può farlo e può puntare a elezioni in primavera, forte dell’attuale sistema elettorale nel quale sono i partiti a indirizzare i voti, anche comprandoli.
Insomma, il futuro è decisamente cupo: non è con queste liberalizzazioni che l’economia potrà svoltare evitando quella recessione pronosticata dall’Fmi, che ha previsto una caduta del 2,2% del Pil nel 2012.
Tra le decine di provvedimenti decisi ieri dal governo non tutto è da buttare. Ma i cittadini avrebbero desiderato più decisione con i poteri forti rappresentati dal sistema finanziario (banche e assicurazioni) e contro i giganti che controllano settori un tempo pubblici e scelleratamente privatizzati come le autostrade e l’energia. Ci sarebbe piaciuto che ci fosse stato un ripensamento sui monopoli naturali che preferiamo pubblici, anziché privati.
Invece la linea è stata un altra. Come in moltissimi paesi arretrati, la «lenzuolata» di Monti ha mirato non a una razionalizzazione del paese varando un codice normativo – che di fatto avrebbe scardinato le corporazioni – ma a favorire la creazione di qualche migliaio di posti di lavoro nel settore terziario. Insomma, più commessi di supermercato (con orario ad libitum), più farmacisti e più notai, più tassisti (senza alcuna attenzione per chi i soldi per prendere il taxi non ce l’ha), più benzinai che faranno concorrenza ai giornalai e ai negozi di cd. E più avvocati, con grande gioia delle assicurazioni che senza tariffe minime di riferimento potranno pagare pochi euro i consulenti legali dei quali si avvalgono.
Unica nota positiva – almeno per ora – è che l’attacco all’acqua – come bene comune – sembra non riuscito. Questo significa che neppure un potente governo tecnico (che su questo argomento avrebbe avuto le spalle coperte da quasi tutti i partiti, molto critici sui risultati della consultazione popolare) è riuscito a violare la volontà di quasi 28 milioni di italiani che hanno detto di no alla privatizzazione dell’acqua. L’ennesima prova che la vera democrazia non ha scranni sui quali sedere.

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Decreto blob senza equità
Francesco Piccioni

Poche novità nella stesura finale del provvedimento sulle «liberalizzazioni». Confermata la «norma Montezemolo» che estende l’articolo 8 ai ferrovieri e la riduzione degli spazi per l’impresa individuale Nasce la «ssrl» per le imprese di giovani under 35. Basta un capitale sociale di un euro
Lo ammettiamo subito: non si sa da dove cominciare. Un pasticcio del genere richiede giorni per essere digerito da qualunque critico. A meno di non essere un giornalista di supporto alla linea ufficiale. E noi non possiamo esserlo.
Il «decreto liberalizzazioni» confligge con il principio ispiratore: la libertà. Non è vero infatti che sarete «più liberi» di scegliere il professionista o il servizio a cui rivolgervi. Facciamo un esempio controccorrente. Vi serve un avvocato? Oggi potete chiedere consiglio a qualche amico che abbia avuto il vostro stesso problema. E sarà così anche dopo. Quel che cambia è che l’avvocato, oggi, è molto probabilmente un professionista che fa impresa a sé che vi chiederà una certa cifra per fare un determinato lavoro (la «tariffa minima» è stata abolita da tempo). Domani sarà uguale. Solo che invece dell’avvocato singolo avrete di fronte uno studio articolato come un’impresa. Con un gruppo di vertice che cura i clienti migliori (come oggi), e un insieme di «apprendisti» o «professionisti di seconda fascia» che dovranno sbrigare i compiti per loro conto (es: «depositare un atto»).
C’è una logica, perversa che esce fuori da ogni punto. Esempio: viene inventata la «ssrl» per le imprese fondate da giovani «under 35». Basta un capitale sociale di un euro. Bene!, dicono tutti. «Chiunque potrà fondare la sua impresa..». Peccato che questa presunta «libertà» complichi non poco le normali relazioni d’affari: quale garanzia può dare, a un interlocutore sul mercato, una «società senza capitale»? Qualcuno ce la farà, la stragrande maggioranza non riuscirà nemmeno a iniziare. Darwiniano, certo, ma davvero non «libero».
Chiarita la filosofia (che vale anche per i tassisti, spinti verso la subordinazione individuale a un «imprenditore del settore»), vediamo i singoli punti di interesse generale.
Partiamo dall’acqua, oggetto di un lungo tira-e-molla di cui scriviamo a parte. Oppure dalle ferrovie, dove è stata confermata in pieno la «norma Montezemolo» (ci scusino Diego Della Valle e Gianni Punzo, soci di cotanto imprenditore). Come dice il sottosegretatio alla presidenza del consiglio, Antonio Catricalà, «le aziende ferroviarie non hanno più l’obbligo di aderire al contratto nazionale». Una norma ad aziendam che pone riparo – l’abbiamo scritto più volte – a una norma contra aziendam: l’art.8 della «manovra di agosto», firmata Sacconi, escludeva il solo settore ferroviario dalle possibili deroghe «ai contratti e alle leggi». Una «parificazione» nell’arbitrio, che solo noi possiamo intendere come una «norma di favore». Lo è.
In compenso, diciamo così, il governo si prende 90 giorni di tempo per capire come possa far digerire a Berlusconi – magna pars del Parlamento che vota questo governo – un intervento sulle frequenze tv che obblighi i tycoon come lui a versare qualche spicciolo nelle casse dello stato.
Il decreto si concentra molto sul settore energetico, immaginando che esistano «strozzature» da allargare. La separazione della SnamReteGas dall’Eni risponde a quest’obiettivo, come se chiunque potesse tranquillamente importare gas in Italia (c’è Gazprom, da nord, e nessun altro). La «liberalizzazione della distribuzione dei carburanti» non si allontana da questo schema. Ogni distributore potrà rifornirsi da qualsiasi compagnia: così come le singole autobotti delle compagnie fanno «il pieno» in qualunque raffineria (in sintesi: facciamo già ora il pieno tutti con la stessa benzina).
La parte rilevante – e poco evidenziata da tutti i fan di questo governo – riguarda però i servizi pubblici. Le società municipalizzate saranno obbligate a cedere la gestione dei servizi come «criterio di virtuosità», che influirà successivamente sulle risorse ricevibili dallo stato centrale. Il resto sono belletti di poco conto (le nuove regole sui mutui, il contrasto delle truffe sugli incidenti automobilistici, le norme sulle edicole, fino agli «imballaggi», ecc). Alla fin fine, le otto ore di riunione del consiglio dei ministri – uno dei pochi elementi di differenza rispetto al governo precedente – non hanno cambiato granché nel dispositivo «liberalizzatore».
Ma nessuno che sia nel possesso delle proprie facoltà mentali e che sia rispettoso della normale intelligenza dei lettori potrà mai trovarvi alcunché che possa, come preteso, «favorire la crescita del paese».

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Salvi per ora gli acquedotti


Andrea Palladino
È stata una notte lunga quella della vigilia del consiglio dei ministri di ieri. I telefoni dei dirigenti nazionali del Pd hanno squillato a lungo, in un tentativo estremo di ascoltare almeno una parola contro la tempesta di privatizzazioni promessa dal governo Monti. «Non tradiremo i referendum» promettevano in tanti. Promesse, per l’appunto, che però fino a tarda sera non sembravano tramutarsi in atti politici, con un silenzio che perdurava sulla difesa dell’acqua bene comune, facendo temere lo scenario peggiore.
Alla fine qualcosa è scattato, le colombe all’interno dell’esecutivo sembrano aver prevalso e l’odioso articolo antireferendum è saltato: l’obbligo di affidare solo alle società per azioni la gestione dei servizi idrici è sparito dalla bozza finale del decreto arrivata sul tavolo del consiglio dei ministri all’inizio della riunione.
Una vittoria importante, soprattutto di questo giornale, che – in piena solitudine nel panorama editoriale italiano – ha subito indicato in quel punto il tradimento dei referendum. E una vittoria del movimento per l’acqua, che stava riprendendo la via della mobilitazione a sette mesi dal voto, preparandosi a non dare tregua ai privatizzatori.
Il progetto originale del governo prevedeva di cambiare il Tuel, il testo unico degli enti locali, limitando la possibilità per i comuni di creare aziende speciali o consorzi – ovvero enti di diritto pubblico – solo ai servizi non considerati «di rilevanza economica generale». Una formula che nascondeva di fatto la privatizzazione forzata dell’acqua e la chiusura dell’esperienza avviata da pochi giorni nel comune di Napoli. Un vero imbroglio, scovato da il manifesto non appena la prima bozza del decreto ha bucato la cortina di riservatezza alzata dal governo Monti, che andava ad intaccare la legge fondamentale sulla democrazia locale.
La prudenza – e la vigilanza – deve in ogni caso essere mantenuta, fino alla pubblicazione definitiva sulla gazzetta ufficiale del provvedimento. Rimane assolutamente chiara la vocazione di questo governo, che punta a privatizzare tutto il possibile, seguendo spesso alla lettera le indicazioni di Bruxelles. Ieri nella conferenza stampa del dopo consiglio dei ministri Mario Monti è stato chiaro in questo senso: «Ci possono essere aspetti di privatizzazione, anche nei servizi pubblici – ha spiegato – e non è importante per noi se un’impresa è pubblica o privata. È soprattutto rilevante se quell’impresa si muove in un ambito di concorrenza oppure no». E se l’acqua, almeno per ora, si è salvata, lo stesso non è avvenuto con altri servizi pubblici locali, ad iniziare dalla gestione dei rifiuti – pesantemente colpita – e dal trasporto pubblico.
Per ora il regista dell’ondata liberista, quel Corrado Passera arrivato al governo direttamente dal board di Banca Intesa, polo finanziario strettamente legato ai fondi speculativi interessati ai beni comuni, ha dovuto fare un passo indietro. A lui Monti ha passato il microfono quando l’esecutivo durante la conferenza stampa ha affrontato il tema dei servizi: «I servizi pubblici locali sono una delle aree di maggiore onere per lo stato», ha spiegato il ministro per lo sviluppo economico, annunciando i provvedimenti sui trasporti, con la novità dell’istituzione di una authority nazionale.
Se gli acquedotti sono salvi, lo stesso non si può dire per gli autobus e i treni che ogni mattina ci portano sui luoghi di lavoro o di studio: «Qua sono state introdotte le iniziative per favorire le aggregazioni di imprese – ha proseguito Passera -, con aziende più competitive, spingendo verso pratiche di concorrenza per l’affidamento. Dobbiamo liberalizzare e privatizzare dove è possibile. Si devono creare operatori in grado di stare sul mercato».
L’intenzione annunciata del governo è di accorpare il più possibile le aziende dei trasporti, creando grandi operatori nazionali, pronti a conquistare i mercati locali grazie all’obbligo di gara. Confermato poi il rafforzamento dell’articolo 4 del decreto legge del 13 agosto, che imponeva l’obbligo per i comuni di affidamento ai privati di moltissimi servizi pubblici locali.
Il pericolo dell’apertura alle grandi aziende multinazionali non è, dunque, del tutto escluso. Passera non ha spiegato come potranno, ad esempio, i piccoli comuni evitare che trasporti e rifiuti siano affidati a colossi del calibro di Veolia, azienda francese già ampiamente presente in Italia, con aumenti dei prezzi a tre cifre, come è avvenuto ad Aprilia con l’arrivo dei manager francesi nella gestione degli acquedotti.
Con l’esclusione dell’acqua dal provvedimento di privatizzazione dei servizi si conferma un dato politico importante, che è bene tenere presente: il referendum di giugno è difficilmente aggirabile ed è divenuto il minimo comune denominatore della sinistra, riuscendo a coinvolgere anche una parte dei democratici. Almeno una parte del Pd si è infatti sicuramente spesa per far capire a Monti – e probabilmente alla segreteria del partito – quanto sarebbe costato in termini di consenso andare allo scontro frontale su un tema sensibile come l’acqua.
Il premier dunque sa benissimo che al varco in parlamento sono in tanti ad aspettarlo: «Siamo grati alle forze politiche perché ci sono state di aiuto per capire gli umori delle diverse parti sociali», ha chiarito alla fine del suo intervento. La tecnica senza politica in fondo ha sempre generato mostri.

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Le società petrolifere e del gas all’assalto delle coste d’Italia

Il diritto di perforare il territorio e il mare non trova consensi, se non tra i pochi estimatori di Standard & Poor’s
Guglielmo Ragozzino
Pomeriggio e sera di ieri hanno visto, con divertito stupore degli astanti, un susseguirsi di notizie e commenti relativi agli articoli sulla libertà di trivella contenute nel futuro decreto sulla crescita Italia. Un’agenzia garantiva che all’articolo 21 era tolta la parola offshore, cioè ricerca ed estrazione al largo; e trattandosi di un articolo dedicato all’offshore sarebbe rimasto asssai poco. Un’altra assicurava che l’articolo 22 era stato completamente tolto di mezzo; ed era quello che consentiva di bucherellare tutto il territorio nazionale. In un’altra nota era contenuto anche l’incredibile accenno a Standard & Poor’s, citato da Ermete Realacci, capofila degli ecodem. In effetti il riferimento a S&P era anche peggio dell’immaginabile: «A titolo esemplificativo si rileva che tra le ragioni che hanno indotto, lo scorso 9 settembre, S&P ad alzare il rating di Israele ad ‘A+ ‘da ‘A’, c’è stata proprio la decisione del governo israeliano di sviluppare le attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi nelle proprie acque territoriali». Affiora così un completo stravolgimento. Infatti, secondo l’estensore del pre-decreto, lacosa più importante non è fare sconquassi lungo le coste e neppure ricavare quantità di petrolio e gas; quello che conta soprattutto è mostrarsi solerti e ricevere un buon voto dalle case di notazione. In sostanza una lettura disincantata degli articoli 21 e 22 suggeriva di essere alla presenza di un classico gioco delle tre carte: il contenuto idrocarburico del decreto era tolto da quelli per ricomparire nell’articolo 20, molto generico e aperto all’aumento delle prebende per i «territori di insediamento degli impianti produttivi» e i «territori limitrofi».
Verso sera sembrava però prevalere un’altra bozza per il decreto in discussione; qui le questioni relative alla trivellazione terrestre e marina avevano una collocazione più avanzata e al tempo stesso abbreviata. Nell’articolo 16 si prevederebbe di favorire lo sviluppo delle risorse energetiche nazionali al fine di garantire maggiori entrate erariali per lo stato (nonché di fare bella figura con S&P, è sottinteso). Nell’articolo 17, dedicato all’offshore, è scritto che per tutelare ambiente ed ecosistema sono vietate le attività nelle acque protette, il cui elenco sarà emesso entro 90 giorni dalla data di conversione del decreto; solo che «nel caso di istituzione di nuova area protetta, restano efficaci i titoli abilitativi già rilasciati». Sarà una corsa tra chi vuole scavare, per esempio, nel bel mezzo delle Isole Eolie e ha presto ottenuto i relativi titoli e chi vuole evitarlo. Vinceranno i sognatori, con lo sguardo rivolto al passato, oppure gli artefici del solido futuro delle torri di scavo? Di nuovo, S&P scommetterà sui titoli solidi, e farà bene.
Il Wwf, Stefano Lenzi in particolare, hanno dell’altro da raccontare. In un dossier dell’associazione ambientalista si rileva che su 136 concessioni di coltivazione (idrocarburi liquidi e gassosi) solo 21 hanno pagato le royalties, mentre in mare su 70 impianti si paga per 28. Ad agire sono 59 imprese quelle che pagano sono 5 (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed Eni/Mediterranea idrocarburi).

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