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Mercato del lavoro. La realtà e la finzione

 

La recita è stata organizzata con cura. Monti e Fornero in conferenza stampa ad assicurare che “lo facciamo per i giovani e per l’equità”, quando proprio i giovani escono confermati nella precarietà assoluta che li sta facendo invecchiare senza uno straccio di tutele e “certezze”.

Per i lavoratori più anziani è un massacro senza precedenti storici, dai tempi di Bava Beccaris. Il licenziamento diventa sicuro se l’azienda scrive nella lettera “per motivi economici”. Il ricorso al giudice resta alla fine di una corsa a ostacoli, ma se non vinci la causa perdi anche l’indennizzo. Quindi, è il consiglio dello Stato, “meglio se non lo fai”. Gli ammortizzatori sociali si riducono a un Aspi di 12 mesi; se sei “fortunato”, ossia ultra-55enne, per 18. Poi puoi anche morire in attesa di un’età pensionabile sempre più lontana perché – dicono – le statistiche ti hanno allungato “l’attesa di vita”. Così il governo tecnico ha pensato bene di accorciartela.

La filosofia di fondo è: devi lavorare sempre, fino alla morte, senza certezze e senza (quasi) indennità sostitutive. Così sperano di avere un branco di lavoratori poveri, ricattabili, malleabili, usa-e-getta, come una materia prima riproducibile qualsiasi.

Insopportabile, in questo quadro, il coro fetente e ipocrita dei partiti politici parlamentari (fatte salve le sparate di un giorno dei soliti dipietristi). Cui sembra credere persino qualche giornalista de “il manifesto” più incompetente della media. O con l’occhio al prossimo lavoro, visto che quel giornale è in liquidazione coatta amministrativa e, purtroppo (perché ci sono anche giornalisti ottimi, che citiamo di frequente) dato per vicino alla chiusura.

iudicate voi: vi diamo due articoli che più lontani non si può.

Licenziamenti economici, corsa a ostacoli per il reintegro

Francesco Piccioni

na «riforma di portata storica« davvero, se l’attuale Parlamento di «nominati» la farà passare così com’è. In estrema sintesi: cambia realmente tutto – in molto peggio – per quanto riguarda le tutele dei lavoratori dipendenti, quasi nulla sulla precarietà. Vediamo dunque le partite principali, tenendo conto del testo e non delle parole spese in conferenza stampa.
Licenziamenti Era il punto più atteso e il ministro l’ha lasciato per ultimo come si conviene quando bisogna dire le cose crudeli (ma senza lacrima). Grazie alla tecnica dello «spacchettamento», i licenziamenti diventato praticamente liberi; come dice Gianni Rinaldini (coordinatore de «La Cgil che vogliamo») «l’art. 18 non esiste più». L’unica accortezza che devono avere le aziende è nell’indicare come causale «per motivi economici» e non aver lasciato troppe tracce (o testimonianze) di «discriminazione». Ma del resto nessun imprenditore ha mai addotto motivi «discriminatori», sanzionati peraltro dalla Costituzione prima che dalla legge 300/70. In dettaglio, le uniche ragioni ammissibili sono quelle «disciplinari» oppure «economiche». Nel primo caso, è il giudice a stabilire se – quando riscontra che l’azienda non ha detto il vero – si deve procedere al reintegro del dipendente sul posto di lavoro (con ovvia restituzione degli stipendi e dei contributi non pagati) oppure al semplice indennizzo economico, tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità (15-27 nel vecchio testo, devono essere sembrate «eccessive»). Finora la scelta è stata lasciata al singolo lavoratore.
La vera rivoluzione è per i licenziamenti «economici». Una volta comunicata la risoluzione del rapporto, impresa e dipendente devono presentarsi entro sette giorni presso la Direzione territoriale del lavoro per addivenire a una «conciliazione» in cui viene stabilita l’entità dell'”indennizzo». Se entro 20 giorni l’accordo non si trova, l’azienda può procedere al licenziamento effettivo. Se invece c’è, parte «l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia» per la ricollocazione sul mercato del lavoro. Il lavoratore che non trova l’accordo può ancora ricorrere al giudice (i tempi della procedura vengono notevolmente accelerati, con una sorta di «corsia preferenziale»), ma questi non potrà entrare nel merito delle ragioni economiche addotte dall’azienda; e solo nel caso ne riscontri l’«insussistenza» procederà al «reintegro».
Vi sembra contorto? Lo è. In pratica il lavoratore dovrà decidere subito se accettare l’indennizzo che gli viene proposto oppure correre il rischio di una causa in cui, se non vince, può perdere anche il risarcimento.
I media ieri riportavano che proprio su questo punto si era esercitato il massimo di pressione da parte del Pd per «correggere» il testo originario. A voi giudicare se ha avuto un successo, come dice Bersani. Oppure no, come ci sembra evidente.
Precarietà Cambia ben poco. L’apprendistato viene «valorizzato» come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro». Le aziende possono però continuare ad assumere «apprendisti» solo se nelle precedenti chiamate hanno finito per assumerne almeno il 50% in pianta stabile (soltanto il 30%, nei primi tre anni della legge). In compenso, potranno assumerne tre ogni due lavoratori con contratto a tempo indeterminato (oggi il limite è 1 contro 1; quindi «più apprendisti per (quasi) tutti».
I contratti a termine non dovranno essere più giustificati col «causalone» per la prima chiamata, ma sarà loro applicata un’addizionale contributiva per finanziare in parte l’Aspi (il nuovo nome dell’assegno di disoccupazione); successivamente sarà obbligatorio motivarli, ma scattano incentivi contributivi se si passerà all’assunzione a tempo indeterminato.
Scatta poi la «presunzione di abuso» per i co.co.pro. o le partite Iva monocommittenti prolungate, così come per altre due o tre forme contrattuali «atipiche». Ma non ne viene abolita nemmeno una.
Ammortizzatori sociali È l’altra «modernizzazione reazionaria» in atto, che conferma sostanzialmente il primo testo presentato due mesi fa. Si passa da un «sistema duale» che prevede varie forme di cassa integrazione più «mobilità» per una platea di circa 4 milioni di lavoratori, e nulla per gli altri, ad un altro in cui ci sarà ben poco, ma per tutti (in teoria e comunque non uguale per tutti). Resta la cig solo per le «crisi aziendale temporanee», mentre scompaiono progressivamente quelle per «cessazione di attività», «ristrutturazione», ecc. Scompare anche la mobilità. In sostituzione di tutto ciò arriva l’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego), che dura però solo 12 mesi per gli under 55 anni e 18 per gli over. In pratica; se fin qui si poteva contare su due anni di cig più la mobilità (2 anni per gli under 50, tre per gli over, totale: 4 o 5), alla fine del «periodo di transizione» da qui al dicembre 2015 resterà soltanto un misero anno (massimo un anno e mezzo per gli anziani).
Ma, almeno, è stato dato un reddito di continuità ai precari? In teoria sì, ma solo se hanno lavorato dodici mesi negli ultimi due anni (un sogno, per il precario medio). Altrimenti – se hai cumulato tre mesi di contributi nell’ultimo anno – ti spetta solo un «mini-Aspi», che dura la metà dei mesi per cui hai i contributi.
Sia chiaro. Il ddl è di 79 pagine; ci dovremo certamente tornare sopra.
 
All’opposto, il filo-piddino Fabozzi, addirittura richiamato in prima con il patetico titolo “Bersani sa anche vincere”. Bum.
 
Soddisfatti. Nel Pd ora la linea di frattura è alle camere. «Modifiche», «no fare subito»
Bersani firma il gran passo
Andrea Fabozzi

Il segretario aspetta il sì del sindacato. E al senato aggira la prima trappola di Di Pietro, grazie all’aiuto del Pdl
ROMA
«Amerei molto che il prossimo vertice di sette ore e mezzo lo si facesse per dare un po’ di lavoro». Considerato il vincitore della lunga trattativa sull’articolo 18, Pierluigi Bersani si offre soddisfatto al Tg3 della sera. «Abbiamo fatto un passo avanti importantissimo», dice. Ma il suo primo messaggio è per la Cgil: il partito non smetterà di marcare stretto il governo, ora però bisogna accettare la mediazione. Il sindacato rimanda a oggi il commento ufficiale, Camusso sostiene di voler leggere il testo anche dopo ore che il testo circola. Ma «passo avanti» è una formula che può andar bene per evitare che tra partito e sindacato la strada si divarichi.
Se Monti già parla di fiducia e Fornero addirittura confonde disegno di legge e decreto, il segretario del Pd spiega che invece qualche modifica si dovrà pur fare, in parlamento. Lo studio del testo è fondamentale e nemmeno semplicissimo, visto che gli otto rapidi commi dell’originale articolo 18 (seccamente intitolato «reintegrazione nel posto di lavoro») sono diventati due pagine e mezzo di norme complicate, così rubricate: «Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo». Lo scoglio del licenziamento per motivi economici, cosiddetto «oggettivo», è stato superato perché il Pd ha ottenuto che il reintegro non sia più escluso. Sarà però confinato in spazi ridotti, nel caso in cui il giudice accerti che le ragioni economiche sono «manifestamente insussistenti», cosa che in tempi di crisi economica non sarà frequente. In più, oltre alla riduzione del risarcimento (che addirittura andrà parametrato sugli sforzi che il licenziato ha fatto per cercarsi un altro lavoro) c’è il problema che dovrà essere il lavoratore a portare in giudizio l’azienda. Ma questi sono i temi dei prossimi giorni, ieri il Pd poteva festeggiare largamente. Tanto che addirittura il sindaco di Firenze Renzi ha dovuto dire che «hanno vinto Bersani e il Pd», aggiungendo subito che secondo lui non era una battaglia importante: «L’articolo 18 è un articolo del passato».
Saldato il fronte interno con questo successo, mentre ieri cantavano nel coro anche quelli che nei giorni scorsi intimavano a Bersani di assecondare subito i propositi di Monti e Fornero, la linea di frattura del Pd comincia già a spostarsi verso le aule parlamentari. L’ala «montiana» spinge per un’approvazione a tambur battente, addirittura in due mesi secondo Enrico Letta. Stefano Fassina parla di «soluzione positiva e innovativa», ma allega l’elenco degli «altri punti che vanno rivisti», si va dagli ammortizzatori sociali per i parasubordinati all’aumento dei contributi per gli stagionali. Rosy Bindi registra il «significativo cambiamento rispetto all’impostazione originaria» ma lo condisce con un attacco alla ministra del welfare, accusata di «ambiguità» perché dicendo che ora le imprese non hanno alibi per non investire «avvalla una interpretazione delle modifiche che renderebbe più facili i licenziamenti, anziché tutelare i diritti dei lavoratori». Cesare Damiano, acquattato tra i giornalisti durante la conferenza stampa del governo, sottolinea tra i punti positivi una cosa che non cambia: «L’onere della prova rimane a carico del datore di lavoro». Insomma, riassume Bersani, il nuovo articolo 18 «non sarà scritto con la mia penna» ma il Pd ha ottenuto che «qualsiasi tipo di licenziamento non possa essere semplicemente monetizzato» e tanto basta. Nell’attesa che anche la Cgil, come si augura il segretario, «registri il cambiamento», lo registra Legacoop che in mattinata risulta tra i firmatari, con l’Alleanza delle cooperative, di una nota molto critica ispirata dalla Confindustria, e in serata con Poletti chiarisce che le modifiche strappate a Monti sono comunque «positive».
Giornata di festa, ma l’ira funesta di Di Pietro che alza il tono contro il governo chiarisce al Pd che gli ostacoli non sono spariti. Il leader dell’Idv oltre a fornire sempre nuovi argomenti a chi tra i democratici non vede l’ora di mollarlo per sempre, rilancia la concorrenza a sinistra, bocciando la mediazione così come fanno Federazione della sinistra e Sel (ma non parla Vendola). Non scatta però la prima trappola piazzata da Di Pietro tra i piedi di Bersani, visto che al senato democratici e berlusconiani si uniscono nella lotta e rimandano a colpi di maggioranza una parecchio imbarazzante mozione dell’Idv in difesa dell’articolo 18 così com’è, e come non sarà più.

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