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Letta annuncia la svolta presidenzialista

L’elezione del presidente della Repubblica è «impossibile con le vecchie regole». Il premier Enrico Letta, trilateralista e bilderberghiano come il predecessore Monti, interveniva al Festival dell’economia di Trento. Per temi e contenuti, non c’era in teoria luogo meno indicato per dare il la alla principale delle riforme costituzionali che covano sotto la segretezza del governo più infame e inguardabile della storia recente.
O invece era proprio il luogo più adatto? La crisi economica non ha soluzioni in ambito capitalistico, questo lo sanno ormai tutti ai piani alti del Vecchio Continente. Specie per paesi come l’Italia, zavorrati dalla borghesia meno imprenditorale e più vorace che esista, non ce n’è più.
Come controllare allora l’insorgere – sempre possibile, anche se spaventosamente in ritardo rispetto ad altri paesi – di una popolazione stressata da un arretramento continuo nelle condizioni di vita? Concentrando i poteri in pochissime mani.
La riduzione consente di eliminare gran parte dei veti incrociati di una classe politica tanto ricattatoria quanto incompetente, e a sua volta voracissima. Il che presenta l’indubbio vantaggio di “velocizzare” i processi decisionali interni ai gruppi dominanti.
A rimetterci, dunque, oltre che la popolazione di cui nessuno – lassù – si cura, dovrebbero essere anche diversi interessi consolidati ma ormai “anti-economici” dal punto di vista sistemico.
Il presidenzialismo – ormai operante sul piano reale, “grazie” all’indefessa opera di Giogio Napolitano – va dunque formalizzato anche sul piano costotuzionale. La reazione alla crisi è una blindatura.

«La settimana vissuta a metà aprile per l’elezione del Capo dello Stato – ha ricordato Letta – con le regole della costituzione vigente è stata drammatica per la nostra democrazia». «La fatica della nostra democrazia è emersa lì; tuttavia non credo potremmo più eleggere il Presidente della Repubblica in quel modo lì, perché assegnare questa elezione a mille persone non è più possibile».
Si può dunque esser giovani e mentire spudoratamente come il più vecchio dei maneggioni democristiani o dello stesso Caimano capo. La “fatica della nostra democrazia” – a voler usare le categorie improbabili di Letta il Giovane – è stata misurata nella doppia tornata elettorale (politiche di febbraio e amministrative di maggio), certificando il più netto distacco tra classe politica e “paese reale”. Sarebbe stato logico che ci si preoccupasse molto di questa realtà, se un premier è preoccupato davvero per la tenuta della “nostra democrazia”.
E invece no. Il giovane trilateralista centra il problema su un’elezione tutta interna alla classe politica, quella del Capo dello Stato, secondo le attuali regole costituzionali (voto delle Camere riunite più un certo numero di grandi elettori scelti dalle Regioni). Dove e quando è stata “drammatica” quell’elezione? Quando il Pd si è spaccato come una mela marcia sul nome di Romano Prodi. E dove sta il “dramma”? Sul brivido che deve esser passato per la schiena di alcuni (Pd e Pdl) al pensiero che, se Grillo e i suoi fossero stati un po’ meno incompetenti, si sarebbero potuti ritrovare sul Colle un Prodi o un Rodotà, invece che un novello Napolitano. UOmini tra loro molto diversi, ma comnque espressione di configurazioni di potere diverse dal “governissimo” Pd-Pdl. Orrore!
Quindi si deve correre ai ripari. Votazione diretta da parte del popolo? E’ anche questa un’opzione rischiosa, visti i tempi. Ma un sapiente uso delle televisioni e dell’astensionismo dilagante potrebbe comunque portare a una nomina “sotto controllo”. Del resto Letta il Giovane non si è affatto sbilanciato sulla procedura tecnica di questa scelta. L’importante – per i poteri che rappresenta – è concentrare la decisione ultima in mani sicure, blindare la goverrnance al tempo del Fisca Compact.
Per il resto, Erdogan docet, ci sono le polizie.

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