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La Fiat non c’è più, l’Italia nemmeno

Strano che tanti dotti esegeti della simbologia, quelli che preferiscono parlare dell’immagine anziché delle trasformazioni di fatto, abbiano bypassato con cura il cambio di reisidenza fiscale, legale, di nome e di logo della Fiat. Problemi di categorie da usare, paura di rischiare l’effetto “che palle”, di inquadramento di un evento nazionale-internazionale all’interno di un quadro altrettanto vasto e di cui si comprede, generalmente, assai poco.

Eppure a noi questa fuga dall’Italia della principale industria privata ci sembra ad un tempo una notizia rilevante su entrambi i piani.

Nel bene e soprattutto nel male, la Fiat è stata – insieme all’Iri – un pilastro essenziale dell’economia “mista” che ha fatto la fortuna del paese negli anni del “boom” economico. Scomparse quelle pubbliche grazie alle “privatizzazioni” suicide, allegramente realizzate da centrosinistra e centrodestra (più dal primo schieramento che dal secondo, addirittura, a conferma di un'”anomalia italiana” profondamente perversa), la fuga della Fiat dal paese d’origine sta a indicare la scomparsa totale dei “punti di riferimento” della strattura industriale. Senza un baricentro, un’industria-pivot, tutto è destinato o al crollo (nel medio periodo, una chiusura dopo l’altra) oppure alla ricomprensione all’interno di filiere produttive multinazionali. Con le ovvie conseguenze occupazionali e salriali che ne discendono. Ma anche con la scomparsa di un know how consolidato nel corso di una paio di secoli, e che rischia di scomparire – o esser ridimensionato come piccole “isole felici” – nelò volgere di pochissimi anni. Ci sono voluti mille anni per costruire una tradizione universitaria di primo livello, è bastata una generazione di sciagurati (da Lombardi a Luigi Berlinguer, fino a Moratti e Gelmini) per interrompere in modo sostanziale lo “schema di riproduzione” virtuoso.

Altrettanto sta avvenendo e avverrà con l’assorbimento di Fiat dentro una multinazionale –  Fiat Chrysler Automobiles –  con un nuovo logo (l’acronimo Fca), la sede legale in Olanda, la residenza fiscale in Gran Bretagna, la quotazione a New York e a Milano.

Non stiamo parlando soltanto dell’immenso indotto costruito in decenni di esternalizzazioni e in un secolo di “produzione di servizio” per il Lingotto. Buona parte della produzione nazionale di acciaio, per esempio, finiva in automobili (Ilva), oltre che in edilizia (i “tondinari”).

Scomparso il baricentro, sarà una lotta per agganciare le forniture alle industrie tedesche (e francesi) oppure per sopravvivere alla meno peggio. L’impoverimento generale si abbatterà – lo sta già facendo – sull’immensa rete di concessionari, meccanici, elettrauto, carrozzieri, ecc. Un paese che si accartoccia.

Dalla politica i segnali che arrivano sono univoci, così come dalle relazioni industriali. Tagliare, ridurre, abbattere: sia le spese che i salari, sia le pensioni che gli ammortizzatori sociali, sia l a sanità che l’istruzione. Torneremo a essere “competitivi” quando saremo disposti a lavorare gratis (sta già accadendo anche questo; per esempio in alcune scuole private).

Sotto il “simbolico”, insomma, scorre sangue e pulsa vita. Sotto la fuga di Fiat si intravede un futuro nero, da provincia sottosviluppata di un mezzo impero multinazionale chiamato Unione Europea. E’ già avvenuto, per il Mezzogiorno d’Italia, quando l’unità nazionale fu fatta a sue spese. Si ripete oggi, su scala più vasta, con costi così superiori da essere inimmaginabili.

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