L’assoluzione di Berlusconi in sede d’appello del “processo Ruby” segna probabilmente più di altri eventi il passaggio di regime. Se ne è avuta la conferma plastica, ieri, nella celebrazione dell’anniversario – il ventiduesimo – della strage di via D’Amelio e dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Da un lato il Potere, tornato ai fasti di un tempo, distante “dal popolo” e tutto compreso nei propri riti. Dall’altra la piccola massa di quanti, nell “scrematura” legalitaria dello Stato, dei suoi apparati, e quindi nella recisione dei legami tra Stato e mafia, avevano creduto.
Il capo della polizia, Pansa, ha ricordato le vittime deponendo una corona alla caserma Lungaro. Al chiuso, tra poliziotti. Nessun “politico” si è fatto vedere in via D’Amelio, a parte Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia e ormai fuori dai vertici del Partito Democratico. Nemmeno ha ha avuto però sconti. Quelli delle Agende Rosse – familiari delle vitime e attivisti delle associazioni antimafia – le hanno voltato le spalle alzando il diario scomparso di Borsellino divenuto loro simbolo ed emblema di una verità negata sulle stragi. Anche fisicamente, dunque, popolo e Potere si sono definitivamente separati sul tema dirimente: la mafia va combattuta o ci va trovato un punto d’equilibrio? La risposta ci sembra chiarissima.
Ma è stato soprattutto il pm Nino Di Matteo, mente storica dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, a marcare la distanza tra l’antimafia recitata e quella reale, indicando per nome e cognome gli “uomini delle istituzioni” che hanno remato sistematicamente contro l’accertamento della verità sulla stagione delle stragi di mafia. A partire ovviamente dall’ineffabile Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica disonorata, che ieri, nel consueto messaggio “dovuto” istituzionalmente e inviato a Manfredi Borsellino, è stato capace di auspicare «che i processi ancora in corso possano fare piena luce su quei tragici eventi, rispondendo così all’anelito di verità e giustizia che viene da chi è stato colpito nei suoi affetti più cari e che si estende all’intero Paese»; cercando dunque di far dimenticare che proprio lui si è rifiutato di deporre davanti ai magistrati siciliani su quanto accaduto durante le ormai mitologiche “trattative Stato-mafia”. Come si possono pronunciare queste parole («È indispensabile non dimenticare che un’azione di contrasto sempre più intensa alla criminalità organizzata trae linfa vitale dallo sforzo di tutti nell’opporsi al compromesso, all’acquiescenza e all’indifferenza») mentre si mette una lapide sopra le pagine più oscure dell’ultimo trentennio? Solo con l’improntitudine del potere che sa di non correre più alcun rischio.
Proprio lui, dunque, è stato il bersaglio grosso su cui il pm Di Matteo – probabilmente a un passo ormai dalla estromissione dalle indagini e anche dalla magistratura – ha sparato le sue accuse. «Non si può ricordare Paolo Borsellino ed assistere in silenzio ai tanti tentativi in atto – dalla riforma già attuata dell’Ordinamento Giudiziario a quelle in cantiere sulla responsabilità civile dei giudici, alla gerarchizzazione delle Procure anche attraverso sempre più numerose e discutibili prese di posizione del Csm – finalizzate a ridurre l’indipendenza della magistratura a vuota enunciazione formale con lo scopo di comprimere ed annullare l’autonomia del singolo Pubblico Ministero».
Poi il riferimento al capo dello Stato. «Non si può assistere in silenzio all’ormai evidente tentativo di trasformare il pm in un semplice burocrate inesorabilmente sottoposto alla volontà, quando non anche all’arbitrio, del proprio capo; di quei dirigenti degli uffici sempre più spesso nominati da un Csm che rischia di essere schiacciato e condizionato nelle sue scelte di autogoverno dalle pretese correntizie e politiche e da indicazioni sempre più stringenti del suo Presidente». Ovvero da Napolitano, il primo a rendere di fatto “presidenziale” – con i suoi comportamenti pratici – la Repubblica nata nella Costituzione come “parlamentare”. Il suo presiedere sia il Csm che il Consiglio di Difesa, che la Costituzione intendeva come poco più che presenza formale, di “unità repubblicana” tra i diversi poteri dello Stato, è stato invece un decidere di fatto, un imporre una gestione politica a questi organismi di garanzia. Quale direzione politica? Quella indicata da Di Matteo, per quanto riguarda il Csm; ossia il riportare il potere giudiziario – il terzo tra quelli di una democrazia borghese liberale – sotto il controllo dell’esecutivo, del governo.
Ma è tutta la svolta della politica sotto Renzi a segnare questo passaggio dalla stagione della “lotta alla criminalità organizzata” a quella del ritorno della stessa criminalità organizzata nelle stanzedel potere, attraverso terminali politici decisamente “sotto controllo”. Ha detto Di Matteo: «Oggi un esponente politico, dopo essere stato definitivamente condannato per gravi reati, discute con il Presidente del Consiglio in carica di riformare la legge elettorale e quella Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato quella fedeltà che ha osservato fino all’ultimo suo respiro».
Semplice, quasi una pura constatazione, neanche un commento o una critica. È così, e Renzi lo rivendica pure… «Le sentenze non si commentano ma si rispettano – ha ribadito dal Mozambico – ma dal punto di vista istituzionale io mantenevo la parola anche se lo condannavano».
Il regime si è stabilizzato, dunque, ha trovato la sua “quadra”, sono stati raggiunti gli accordi necessari. Berlusconi uscirà di scena (non è più “presentabile” fuori della fogna italiana), dotato del “salvacondotto” che da sempre richiedeva contro le attenzioni della magistratura; ma il suo blocco sociale e gli interessi che ha rappresentato trovano piena cittadinanza nella “terza repubblica”, quella che abolisce la Costituzione nata dalla Resistenza e costruisce un assetto oligarchico impermeabile alla pressione popolare. Come l’Unione Europea, insomma.
Le reazioni velenose di diversi politici di seconda fascia al discorso di Di Matteo chiariscono perfettamente il cambio di stagione. Luca d’Alessandro (FI) definisce il pm palermitano «esempio della parte peggiore della magistratura, che approfitta di ogni occasione per svolgere un ruolo politico». Fabrizio Cicchitto (Ncd) lo definisce invece «un mediocre imitatore di Ingroia. È inquietante che un tipo del genere abbia per le mani indagini delicatissime e ovviamente uno dei suoi scopi è quello di andare addosso al Presidente della Repubblica». Secco anche Andrea Mazziotti, di Scelta Civica, che invita il pm a indagare «seriamente e in silenzio».
Del resto, se si abolisce in Europa il potere legislativo del Parlamento (quello di Strasburgo, per cui avete appena votato, non può proporre alcun disegno di legge, ma solo ratificare o emendare le decisioni del governo comunitario, ovvero della Commissione), perché mai dovrebbe restare in vita – e in Italia, per di più – il potere indipendente della magistratura? Lo schema ideale di Tocqueville viene ancora una volta riposto nel museo delle belle idee inapplicate, la mafia può tornare a trattare il suo peso politico traducendolo in poltrone e appalti; i magistrati devono tornare all’obbedienza verso gli inquilini dei Palazzi. La maggior parte lo ha capito da tempo, e condivide il disegno. E, come si dice, d’ora in poi “parleranno attraverso le sentenze”. Perché in effetti, senza grandi sforzi di dietrologia, ci sono sentenze che parlano…
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