Da quando esiste, la Rai è strumento potente del potere. Lo era per Mussolini e il fascismo (allora si chiamava Eiar, era limitata alle trasmissioni radio, ma fu l’unica voce che gli italiani hanno potuto ascoltare nel Ventennio), lo fu per la Dc (e anche per il Pci, che aveva non pochi dirigenti e mezzibusti tra le sue fila).
Diciamo che nel dopoguerra la Rai è stata un calco del Parlamento, un circo barnum del “consociativismo”, tra altissime professionalità e bassi compromessi di sottobosco, tra generazioni di innovatori quasi geniali e oscuri preti che andavano coprendo le gambe delle soubrette (non si arresero neanche dopo le gemelle Kessler).
Insomma, spazio proporzionale al peso politico, pluralismo di serie B, un ambientino da coltellate alla schiena e successi clamorosi. Ma un po’ di pluralismo, altrimenti come sarebbero potuti andare in onda Alessandro Curzi o persino Fulvio Grimaldi?
Non è più tempo di pluralismo, pensano ai piani alti del potere (il governo è un minus habens, al confronto). Meglio una voce sola, una sola linea narrativa del mondo e di quel che vi avviene: la nostra. In fondo a Mediaset non la pensano in modo diverso…
E quindi hanno mandato Renzi a proporre un “cambio degli assetti di governance” della Rai. Consapevole che nessuno può essere credibile se si attesta alla semplcie “difesa” degli assetti esistenti, già pesantemente stravolti dal ventennio berlusconiano. Ma consapevole anche del fatto che la pretesa di far fuori tutti gli altri dalla gestione della Rai non sarebbe impresa facile, se affidata a un Parlamento di nominati – sì – ma non soltanto da lui.
Come si bypassa il Parlamento è però la specialità della casa, in casa Renzi. Un bel decreto, “dopo aver ascoltato tutti” e dopo aver verificato che per via di disegno di legge si finisce alle calende greche. Una bel voto di fiducia et voilà, ecco la nuova Rai servita sul piatto.
Somiglierà all’Eiar? Beh, si potrà sempre dire che anche quella era un esempio dell’eccellenza e della creatività italiana…
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