Lampedusa, Agrigento (NEV), 17 giugno 2015 – Per chi sta nella frontiera, come noi da Lampedusa, vedere le scene e le immagini da Ventimiglia fa riflettere. In primo luogo perché ci conferma che la maggior parte dei migranti, nonostante i media continuino a parlare di invasione, non hanno per niente intenzione di rimanere in Italia. Proprio ieri, infatti, lo stesso Istat ha nuovamente segnalato come nel nostro Paese i migranti che arrivano sono sempre di meno mentre gli italiani che se ne vanno sono sempre di più, per effetto della crisi economica. In secondo luogo, perché quello che diciamo da tempo, cioè che le persone che arrivano su quest’isola il confine poi se lo portano addosso come un marchio sulla pelle, trova la conferma nelle immagini che abbiamo visto in questi giorni. Il confine, i suoi dispositivi, le retoriche che in questa dimensione prendono forma, accompagnano ovunque le persone che lo attraversano, adattandosi e trasformandosi in modo dinamico in base alle situazioni che si trovano a vivere. Ponte Mammolo, la stazione di Milano, il confine di Ventimiglia, non sono altro che la prosecuzione di quello che iniziamo a vedere su quest’isola.
Un confine che si estende anche nelle paure collettive, nei titoli dei giornali ad effetto, nella continua campagna dell’emergenza. La paura della scabbia ad esempio, curabile facilmente e in qualche giorno, è diventata il mantra principale con il quale i media costruiscono la separazione tra il Noi e il Loro nella quotidianità del sociale. La scorsa settimana scrivevamo della povertà messa al confine, del fatto che uno dei primi diritti che viene negato alle persone che arrivano è quello del riconoscimento della libertà di movimento. Una libertà che, però, cercano di esercitare con i loro corpi, strumento che mettono in gioco fino in fondo, dentro e contro i confini dell’esclusione. Lo fanno disobbedendo pacificamente all’ordinamento legislativo europeo, una disobbedienza spontanea contro leggi che sono intrinsecamente ingiuste.
Quello che succede a Ventimiglia, quindi, non è altro che una denuncia contro l’inadeguatezza delle regole di Dublino, contro la logica delle frontiere europee. Ieri, nelle stesse ore in cui vedevamo le immagini di Ventimiglia, trasformata in un palcoscenico della frontiera come è accaduto a Lampedusa per decenni, guardavamo le fotografie del confine di Bulent Kilic tra Siria e Turchia, e ci giungeva la notizia che un ragazzo di 18 anni è morto a Melilla mentre cercava di attraversare un altro muro. Immagini e notizie che compongono il mosaico di un fenomeno migratorio che per intensità e consistenza non avveniva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Mentre scriviamo questo articolo non abbiamo ancora le idee chiare su come sia andato il vertice dei Ministri in Europa. A leggere le prime notizie non ci pare che molto sia cambiato, visto che non esiste un accordo vincolante fra gli Stati per redistribuire realmente le quote dei rifugiati e richiedenti asilo – si continua a parlare di numeri e non di persone. Ciò che ci appare evidente è che ancora una volta paesi come la Francia, che hanno contribuito con le loro politiche di guerra a devastare intere nazioni, altro non fanno che mandare forze dell’ordine per impedire a persone innocenti di ritrovare e ricongiungersi con i propri familiari.
In questi giorni a collaborare con Mediterranean Hope a Lampedusa si trova una giovane stagista della Sorbonne, Gabrielle Bécard, che guarda con i suoi occhi quanto avviene al confine con il suo paese e ci racconta: “Le immagini di Ventimiglia mi hanno fatto pensare a quanto accaduto nei primi giorni di giugno a Parigi nel 18ème arrondissement, dove sono stati sgomberati diversi campi profughi, tra l’indignazione di alcuni cittadini presenti a difendere i migranti”. L’esperienza che Gabrielle sta facendo a Lampedusa le ha permesso di dare voce a quanto già percepiva nel suo paese: “Ho la sensazione – continua Gabrielle – che ci sia uno scollamento tra le scelte politiche, le azioni della polizia, e chi vive direttamente sulla propria pelle l’esperienza della frontiera, non solo i migranti ma anche la popolazione locale che assiste in prima persona alle conseguenze di quanto viene deciso altrove. Nonostante la violenza e il clima di intolleranza diffusa che ho visto negli sgomberi a Parigi tanto quanto nelle immagini a Ventimiglia, ho potuto constatare che c’è un’umanità, soprattutto a Lampedusa, che è ancora sensibile e capace di battersi per la dignità di chi arriva in Europa”.
La frontiera si imprime sui corpi, si sposta con le persone che la attraversano, che sia il deserto, la Libia, il Mediterraneo, Lampedusa, il confine turco-siriano o Ventimiglia.
* di MH, Mediterranean Hope
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