Ieri al Campus Einaudi di Torino gli studenti della campagna “Studenti contro il Technion” hanno occupato l’aula E2 del complesso dopo la risposta negativa da parte delle autorità accademiche a concedere un’aula affinché si potesse ragionare di Palestina, di Nakba, di occupazione israeliana.
La motivazione del diniego che doveva essere puramente burocratica – in pratica la richiesta era stata fatta da uno studente anziché da un gruppo e senza la presenza di un professore dell’università che partecipasse all’iniziativa – in realtà nascondeva contenuti molto più politici. Torino è infatti famosa per le relazioni che le sue università intrattengono con le università israeliane e in particolare proprio con il Technion nei confronti del quale da tempo è attiva una consistente campagna di boicottaggio.
L’iniziativa di ieri pomeriggio, organizzata con la sigla “Studenti contro il Technion” e promossa dalla “campagna Noi Restiamo” di Torino e da “Progetto Palestina”, ha avuto un’ottima partecipazione, all’incirca un’ottantina di persone si sono presentate all’assemblea tenuta dal Prof. Joseph Halevi dell’università di Sidney.
Il tema dell’iniziativa era la Nakba, non soltanto come fatto storico e come risultato delle politiche colonizzatrici sioniste ma anche come risultato di strategie, rivelatesi poi errate, da parte dell’allora URSS che sommandosi all’iniziativa delle potenze capitaliste hanno contribuito alla creazione di una ferita ormai da tempo aperta.
Partendo dalla storia del 900 della Palestina, con la rivolta del 1939 stroncata dagli Inglesi che fiaccò fortemente il movimento di liberazione della Palestina, giocando poi un ruolo importante nella sconfitta della guerra del 1948, si è poi proseguito l’excursus citando la proposta di Lord Peel che prometteva la fine dell’immigrazione ebraica nella regione e la impossibilità di acquistare terreni per gli Ebrei. E poi ancora la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite che assegnava il 55% del territorio agli ebrei e solo il 40% agli arabi, l’immigrazione “illegale” di ebrei provenienti da tutto il mondo in terra palestinese dopo la Seconda guerra mondiale, con il benestare implicito di Londra, lo scontro inizialmente interno tra l’esercito di liberazione arabo e le Haganah (formazioni militari ebraiche) che poi è sfociato nella guerra del 1948, dalla quale Israele è uscita vittoriosa e che ha portato alle successive fasi di colonizzazione selvaggia. Come ha detto il Prof. Halevi non un solo insediamento israeliano è nato da solo, ma da insediamenti arabi espropriati e su terre requisite ai contadini e ai legittimi abitanti. In tutto questo scenario si svolge il grande esodo, la Nakba, che portò 750.000 palestinesi ad abbandonare le loro terre. I loro discendenti sono adesso circa 4’500’000 sparsi per centinaia di campi profughi in tutto il Medio Oriente, e il cui ritorno in Palestina appare allo stato assai lontano.
In ultima analisi un’ottima iniziativa, nonostante divieti e censure, per ricordare non solo un evento così catastrofico come la Nakba, ma anche le responsabilità internazionali che si ebbero nel creare una situazione che 68 anni dopo continua a trascinarsi in una regione dove quotidianamente si sente parlare di palestinesi uccisi ai checkpoint senza alcun motivo. Ma anche per dimostrare come l’università sia sempre un luogo più chiuso al dibattito e all’approfondimento di certe tematiche, assoggettata ai poteri forti, che ha abdicato al suo ruolo di creazione di saperi critici, trasformandosi in un luogo gestito all’insegna di un conservatorismo che non esita a concedere un’aula a gruppi fascisti come il FUAN ma che la nega a chi si ripromette di toccare temi scomodi.
Un comportamento scontato, d’altra parte, per un sistema universitario torinese che afferma di ispirarsi alla difesa della democrazia e alla coltivazione libertà di espressione, ma che fa affari d’oro con aziende che sperimentano le proprie tecnologie sulla pelle di un popolo asfissiato da 68 anni di occupazione militare.
Redazione Contropiano Torino
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