Il periodo preelettorale ha avuto se non altro il merito, tra gli altri, di portare in piazza, nel senso letterale del termine, ciò che per i comunisti rappresenta da più di cent’anni un punto fermo nell’analisi materialista dei rapporti sociali: la democrazia non è una categoria assoluta, eterna e astratta. Nei secoli, la democrazia ha assunto sempre forme diverse e, in ogni caso, essa riveste sempre un carattere storico di classe: democrazia per la classe dominante nel determinato periodo storico e dittatura sulla classe o le classi sottomesse.
Gli strumenti e le forme di tale dominio di classe variano in dipendenza dei rapporti di forza tra le classi e il fatto che, in determinati periodi, caratterizzati da un più o meno stabile equilibrio in quei rapporti di forza, la dittatura di classe rifluisca a uno stadio apparentemente neutro, non esclude che gli strumenti del dominio rimangano perfettamente operativi e pronti alla bisogna.
La democrazia nel periodo storico di dominio del capitale ha i propri strumenti di autorità. Tra quegli strumenti, c’è il ricorso aperto alla violenza fascista, tenuto sempre di riserva per i periodi storici di profonda crisi sociale, ma c’è anche il permanente apparato che garantisce la “violenza” (non sempre solo metaforica) istituzionale di marca “democratica”.
E la “democrazia” istituzionale prevede che le forze di riserva vengano “democraticamente” garantite nel loro “diritto democratico” a negare con la violenza i diritti delle classi e degli strati sociali sottomessi. Al contempo, quella stessa “democrazia”, per mezzo del proprio apparato istituzionale di dominio, provvede a che le classi sottomesse non rivendichino troppo apertamente il proprio diritto a non esser esageratamente calpestate.
In mezzo stanno quasi sempre, quando più e quando meno scopertamente, gli Ebert e gli Scheidemann del socialfascismo, pronti a incitare gli apparati repressivi istituzionali a prendere esempio dai metodi e dalle pratiche delle forze fasciste tenute di riserva.
Ora, posto che le strutture repressive dell’apparato statale sono i mezzi di cui quell’apparato si serve per tenere sottomessa una classe sociale, nell’interesse della classe che domina economicamente, politicamente e socialmente; posto che tali strutture non possono che eseguire gli ordini loro impartiti allo scopo di perpetuare tale sottomissione di classe; posto che ogni argomento sulla democraticità o meno di tali strutture non può che basarsi sulla natura di classe dello Stato di cui esse strutture sono i bracci repressivi; posto che, in ogni caso, tali strutture rimarrebbero comunque organi punitivi dello Stato della classe dominante; posto ciò, non sarebbe il caso di rivendicare una solida, sana e generale epurazione antifascista di tali strutture?
Non si tratterebbe certamente di una misura “rivoluzionaria”: semplicemente, risponderebbe ai crismi di quella Costituzione che, purtroppo, appare sempre meno “nata dalla Resistenza” e costituirebbe una misura di carattere democratico. Tra gli innumerevoli punti che campeggiano in alcuni programmi politici e che, inutile dirlo, non potrebbero attuarsi se non in presenza di un potere autenticamente del popolo – quindi, ragionando freddamente: inattuabili in regime di dominio della borghesia – non è il caso di pensare anche a tale punto e cioè all’epurazione antifascista degli apparati repressivi dello stato?
Si tratterebbe di una misura semplicemente democratica: non si tratta certo di chiedere l’istituzione di “milizie del popolo”: operai armati che, a turno, fuori dell’orario di lavoro, garantiscono il rispetto dell’ordine sovietico. Anche praticamente, si tratterebbe solo e semplicemente di una mezza misura; non foss’altro che per la struttura interna di tali apparati, per lo spirito che viene inculcato (chi, a suo tempo, ha fatto l’esperienza della naja, sa bene come agisca, anche psicologicamente, lo “spirito d’emulazione”, servito con le gamelle quotidiane: tanto più, in tali apparati formati da corpi professionali volontari), per la natura di tali corpi, per le gerarchie di comando. Gerarchie che, naturalmente, sanno bene come esercitare il proprio potere su quei sottoposti eventualmente inclini a manifestare morbidezza nei confronti della piazza.
Certamente, quella dell’epurazione non sarebbe che una mezza misura; come lo rimase quella a suo tempo tentata a guerra finita (e presto gettata alle ortiche dai governi democristiani); sarebbe una mezza rivendicazione che rimarrebbe inattuata, come lo rimangono gran parte delle rivendicazioni inserite nei programmi politici e che, in regime di dominio della borghesia, nell’Europa dei monopoli e delle banche, rimarranno inattuate e saranno solo una testimonianza di buone intenzioni democratiche, non rivoluzionarie e men che meno socialiste.
Ma sarebbe una rivendicazione democratica; una testimonianza democratica. E oggi, della democrazia, della democrazia borghese, della “salvaguardia dei valori democratici della Repubblica”, ci si riempie la bocca. Lo si fa ancora di più proprio nel momento in cui si calpestano apertamente quei valori della “democrazia quale bene assoluto”.
Perché dunque non aggiungerci anche questa testimonianza, che non ha certo scadenza elettorale?
E’ la politica che comanda il fucile e impartisce gli ordini su come, quando e quale arma usare. Ma non è indifferente che, finché si rimane sotto il dominio della “democrazia” borghese, a imbracciare il “fucile” dell’apparato di dominio sia il socialfascista Ebert, che represse nel sangue la rivoluzione spartakista, o il socialriformista Bonomi, benigno verso le camice nere e inflessibile castigatore degli antifascisti, oppure il socialista Blum che, pur nel suo anticomunismo, fu a capo del Fronte popolare antifascista.
E non è nemmeno indifferente che a sparare sia uno schioppo caricato a sale, un hemingwayano “Mannlicher” da caccia grossa o un “Točnost” di precisione russo.
Anche il “fucile” rappresentato dall’apparato di repressione può avere calibro, potenza e portata differenti.
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