Alla fine il governo Conte, e in particolare la componente Cinque Stelle, è riuscito ad approvare il decreto che istituisce il Reddito di Cittadinanza (RdC). Nella prima stesura del contratto di governo tra Lega e M5S erano previsti 15 miliardi per il reddito, più 2 per rilanciare i Centri per l’Impiego: alla fine ne sono stati stanziati 6, molto meno del previsto ma certamente anche molto di più di quanto aveva stanziato il governo Gentiloni per il REI. La soglia dei 780 euro, che è la somma valutata da Eurostat come il limite di vivibilità individuale, è stata formalmente salvata. Nessuno dovrà vivere con meno di quella cifra, quando dal primo aprile scatterà la nuova misura.
Nel decreto però è stata inserita una norma che da sola è in grado di pregiudicarne tutto l’impianto quantitativo: in caso di esaurimento delle risorse disponibili, infatti, ci sarà una rimodulazione dell’ammontare del beneficio (art.12, c6). Quindi anche la soglia “simbolo” dei 780 euro sarà rivedibile al ribasso.
Il tema di quanti soldi siano dedicati al RdC è la prima questione che ha interessato tutte quelle forze, in primis le imprese, che ne hanno combattuto l’introduzione: lo scandalo, infatti, è che vengano stanziate risorse per la parte povera della popolazione, mentre il mantra dominante continua a recitare la nota regola che per rilanciare l’occupazione e creare lavoro occorra sostenere le imprese ed aumentare la flessibilità del lavoro. All’articolo 1 del decreto si stabilisce che il RdC è “misura unica di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale” e subito sotto si arriva a definirlo “livello essenziale delle prestazioni” facendo riferimento all’art. 117 della Costituzione che impegna lo Stato alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Nello stesso articolo 1 del decreto però si aggiunge “nei limiti delle risorse disponibili”. Quindi, per intenderci, lo Stato si impegna a dare a tutti il minimo, che è riconosciuto in 780 euro, ma se non ci sono soldi addio impegno.
La pressione esercitata dalle destre liberiste e dalle imprese, che al governo sono sempre più esplicitamente rappresentate dalla Lega, non ha portato soltanto al ridimensionamento delle risorse, ma ha finito per stravolgere completamente le caratteristiche del provvedimento. Non basta infatti certificare la propria condizione economica, reddituale e patrimoniale, per avere diritto al RdC, ma occorrerà rispettare un complesso sistema di obblighi e “condizionalità” per certificare la propria disponibilità quotidiana, e quella di tutti i componenti maggiorenni della famiglia, a mettersi alla ricerca di un lavoro. Questo sistema di obblighi trasforma di fatto la misura da strumento di sostegno al reddito di chi è in difficoltà a forma di pressione coatta ad accettare lavori a basso reddito anche a grande distanza dalla propria abitazione.
La filosofia delle imprese è entrata prepotentemente nel meccanismo di erogazione del RdC, rimodellandolo a proprio uso e consumo. Prima di tutto i beneficiari saranno obbligati ad accettare le proposte di lavoro in base ad un criterio molto ampio di congruità, estendendo i limiti introdotti dal Jobs Act; in secondo luogo, le aziende incamereranno la parte residua dei 18 mesi di RdC che spettavano al beneficiario (una nuova forma di bonus contributivo); e poi, è stato fortemente ridimensionato il peso dei Centri per l’Impiego nella gestione di tutto il processo, riconoscendo anche alle agenzie interinali, agli enti formativi, a quelli bilaterali e ai Caf una partecipazione alla gestione della misura. In sostanza, il RdC si è trasformato così da strumento di contrasto alla precarietà in meccanismo di irreggimentazione della forza lavoro più povera e in una ulteriore forma di sostegno alle imprese.
Il messaggio culturale che passa attraverso l’erogazione di questa misura è l’elemento più odioso di tutta la vicenda: i poveri diventano colpevoli della loro condizione e devono dimostrare continuamente di darsi da fare per giustificare il proprio diritto a ricevere il sussidio. Povero viene assimilato a nullafacente, sfaccendato, ozioso, che trascorre il proprio tempo sul divano e deve imparare a guadagnarsi la vita. Non c’è più una responsabilità del sistema economico e sociale ma una colpa individuale che può essere espiata solo accettando offerte di lavoro al ribasso. E viene introdotta una forma di selezione razziale tra i beneficiari poiché i dieci anni di residenza in Italia costituiscono una soglia che tiene fuori una enorme fetta di cittadini stranieri. Così come la gestione familiare della misura è destinata a confermare i vincoli oppressivi per le donne, che non troveranno nel RdC uno strumento per essere più libere ma un ulteriore fattore di condizionamento.
Questa lettura fortemente critica del RdC non può concedere niente a chi dice che il reddito è inutile perché non crea lavoro, che è il leitmotiv del Pd, dei sindacati confederali e di quanti in questi anni hanno sostenuto l’introduzione del REI, il reddito di inclusione Renzi-Gentiloni. Nell’attuale decreto assistiamo, in realtà, alla riproposizione di tutto l’impianto normativo del REI e del D.lgs. 150 del 2015, cioè del Jobs Act. Il governo giallo-verde cioè si è preoccupato di attualizzare e confermare il Jobs Act, aumentando l’ammontare del beneficio ma peggiorando pesantemente il sistema di accesso e le condizionalità.
Ora che il decreto è approvato comincia una nuova sfida. Innanzitutto il potenziamento dei Centri per l’Impiego. USB vuole da tempo che la gestione del mercato del lavoro torni pubblica e rivendica sia la stabilizzazione e l’internalizzazione di tutto il personale precario che ha mandato avanti il sistema in questi anni, che l’assunzione di migliaia di persone per rendere efficace l’azione di questi enti. Le 4mila assunzioni promesse sono molte meno di quelle che gli stessi dirigenti del settore reclamano da anni, dopo un ventennale blocco del turn over.
In secondo luogo tutti gli aventi diritto dovranno ricevere il RdC, senza ripensamenti in corso d’opera, e le Regioni dovranno prevedere di aggiungere risorse per ampliare la platea che è stata ridotta proprio in seguito ai tagli che lo stanziamento della misura ha ricevuto in questi mesi. Inoltre la congruità delle proposte di lavoro dovrà essere discussa con le rappresentanze dei disoccupati e non oggetto di una odiosa imposizione da parte di tutor, navigator, ecc. Le 8 ore di lavoro gratuito settimanali, che si vuole che i beneficiari e i loro familiari prestino presso le amministrazioni locali, rappresenteranno la dimostrazione concreta del lavoro che manca e di cui le amministrazioni pubbliche hanno un grandissimo bisogno. La battaglia di massa per il reddito e per il lavoro è la sfida che abbiamo davanti.
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