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Federalismo aumentato e giustizia sociale

Secondo l’articolo 3, comma 2, della Costituzione, “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’uguaglianza formale di cui al comma 1 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) trova, quindi, specificazione nell’uguaglianza sostanziale di cui al sopra menzionato comma 2.
Sarebbe sufficiente questa disposizione, che nell’assetto costituzionale costituisce una vera e propria norma programmatica, per comprendere la natura eversiva del progetto di regionalismo differenziato che il governo giallo- verde sta portando avanti, proseguendo un percorso di fatto avviato nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione.
Infatti, lungi dal rimuovere quegli ostacoli necessari per garantire l’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini, il regionalismo differenziato mette in campo politiche divisive che esasperano le diseguaglianze sociali tra le due aree geografiche del paese minando alle fondamenta gli assetti organizzativi e sociali dello Stato.
Si tratta di quel processo di mezzogiornificazione che, così come a livello continentale contrappone i paesi del Nord Europa ai paesi del Sud Europa, all’interno dei confini nazionali contrappone il Settentrione al Meridione.
Il fulcro della campagna da parte dei Presidenti delle tre Regioni (Veneto, Lombardia e Emilia Romagna) ruota intorno alla restituzione delle risorse generate dal territorio e poggia sul concetto di “residuo fiscale”, definito come differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori.

Secondo i sostenitori del “federalismo aumentato” tali trasferimenti di risorse tra territori, attuati in forma implicita dal sistema fiscale, sarebbero indebiti: di qui la richiesta di ottenere ulteriori forme di autonomia (principalmente in materia di sanità, istruzione ed ambiente) attraverso l’applicazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione e, soprattutto, la richiesta di rapportare il finanziamento dei servizi in base al gettito fiscale determinando, quindi, una diversificazione dei servizi, maggiori laddove il reddito pro capite è più alto.
In realtà, come risulta da un accurato studio dell’associazione Svimez, la tesi della restituzione costituisce un approccio sbagliato per almeno due ragioni:
– i calcoli di dare/ avere in termini di imposte e spesa pubblica hanno senso solo se riferiti a singoli individui perchè la tassazione avviene su base individuale
– lo Stato semplicemente raccoglie le imposte erariali e le redistribuisce per finanziare programmi e politiche di spesa a favore dei cittadini con redditi bassi presenti sia nella stessa regione c.d. donante sia in tutto il territorio nazionale.
A tal proposito lo studio della Svimez ha analizzato i c.d. residui fiscali ripartendo le entrate e le spese dei cittadini ed i relativi saldi tra i dare/avere non sul valore medio dell’entrate e delle spese di un cittadino che rappresenta tutta la Regione, ma bensì suddividendole secondo le fasce di reddito a cui i cittadini appartengono. Dallo studio risulta evidente che in ciascuna regione (anche in quelle con reddito medio elevato) sussistono fasce della popolazione (quelle meno abbienti naturalmente) che realizzano residui fiscali negativi, ovvero un gettito fiscale inferiore al volume di spesa erogato dall’ente centrale.
Ciò significa che non vi è nessuna Regione che “dona” ad altre Regioni risorse proprie perché ciascuna Regione è al contempo, anche se in misura diversa, “donante” e “ricevente”: i “ricchi” della Lombardia “mantengono” i “poveri” presenti nella propria Regione e quelli presenti in altre Regioni ed esattamente come i “ricchi” della Lombardia, anche i “ricchi “della Campania “mantengono” i “poveri” delle due Regioni.
Questa conclusione alla quale perviene lo studio della Svimez, decostruisce la propaganda dei sostenitori del federalismo aumentato, e smonta la falsa partizione tra regioni “virtuose” e regioni parassitarie.
La questione andrebbe, in realtà, affrontata da un punto di vista diametralmente opposto.
In primo luogo, invece di rivendicare una autonomia economica per le regioni più ricche che mette a rischio la solidarietà nazionale, occorrerebbe mettere in discussione quei vincoli di bilancio che attraverso i Trattati europei, e l’articolo 81 della Costituzione (che agisce non solo a livello nazionale ma penetra anche sul piano territoriale) hanno progressivamente privato i territori di risorse, seminando disoccupazione, povertà e spoliando i cittadini di diritti e tutele sociali.
Ma il “federalismo aumentato” chiama in causa anche il tema della redistribuzione delle risorse, necessaria per riequilibrare le disparità sociali e garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dall’area geografica di appartenenza, livelli di prestazioni sociali adeguati.
A tale compito dovrebbe assolvere il sistema fiscale che, come è noto, attraverso la tassazione finanzia lo Stato sociale e dovrebbe garantire che chi ha di più contribuisca maggiormente in base al principio di progressività dell’imposta (art 53 della Costituzione).
E qui il discorso è letteralmente capovolto rispetto a quello portato avanti dai fautori del “federalismo aumentato” perchè attiene a quelle politiche fiscali che questo governo, come i precedenti, hanno messo in campo e che hanno acuito le diseguaglianze sociali drenando risorse dai redditi di lavoro dipendenti e pensionati e indirizzandole verso le imprese.
La flat tax al 15% recentemente introdotta per lavoratori autonomi e società di persone fino a 65.000 euro, in realtà è sempre esistita per le società di capitali che hanno visto nel corso degli anni abbassare l’aliquota unica dal 37%, all’attuale 24% indipendentemente dal fatturato. In sintesi l’ aliquota unica del 24 percento per le società di capitali (indipendentemente dal fatturato) corrisponde più o meno all’aliquota IRPEF più bassa (23 percento) riguardante chi percepisce redditi fino a 15.000 euro.
Sul versante Irpef, di quel sistema di progressività dell’imposta che fino agli anni 80 contemplava ben 32 scaglioni con l’aliquota più alta che arrivava al 72 percento per i redditi sopra i 500 milioni delle vecchie lire e l’aliquota più bassa al 10 percento per i redditi sotto i 2 milioni delle vecchie lire, è rimasto quasi nulla.
Tutti gli interventi fiscali messi in campo dai vari governi che si sono succeduti hanno sempre avuto come minimo comune denominatore quello di alzare le aliquote fiscali dei redditi più bassi ed abbassare quelle dei redditi più alti, attuando, quindi, un vero e proprio stravolgimento del principio di progressività dell’imposta.
Risultato: gli scaglioni sono ora ridotti a 5 con l’aliquota più bassa salita dal 10 al 23 percento e quella più alta scesa dal 72 percento al 43 percento per i redditi oltre i 75.000 euro.
E poiché al peggio non c’è mai fine ci sono spinte all’interno della compagine governativa, oramai a completa trazione leghista, per ridurre ulteriormente la tassazione sulle imprese (si parla di un 20%) ed arrivare alla fine della legislatura (ammesso che vi arriveranno secondo gli attuali assetti) ad una aliquota unica Irpef del 15%.
La fonte di finanziamento deriverebbe anche da quel vero e proprio spettro che da troppo tempo aleggia sul nostro paese: l’aumento dell’IVA dal 10% al 13% e dal 22% al 26,5%.
Recuperare la natura fortemente progressiva della tassazione, introdurre una patrimoniale personale annuale sulle grandi ricchezze, abolire l’Iva sui beni di prima necessità lasciandola su quelli di lusso e non necessari, costituiscono tre interventi ormai non più rinviabili per riaffermare il tema dell’uguaglianza sostanziale e riallineare il sistema fiscale al dettato costituzionale.
In assenza di questo non vi potrà essere giustizia sociale al Nord così come al Sud.

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