La questione dei barconi carichi di migranti disperati provenienti dalla Libia è da qualche anno uno dei cavalli di battaglia della destra fascioleghista.
La quale, naturalmente, mette in primissimo piano – con la fattiva collaborazione dei media mainstream – sono un aspetto del problema: i senzaterra che scendono da quelle barche. Oppure quel lato ancor più secondario rappresentato dalle navi delle Ong umanitaria che, ormai pochissime, fanno qualche salvataggio per essere poi bloccate per settimane o mesi nei porti di attracco.
Questa inchiesta di Nello Scavo, giornalista de L’Avvenire – quotidiano dei vescovi italiani, non certo il tempio dell’antagonismo politico – illumina un altro po’ l’intreccio immondo che lega scafisti-schiavisti libici, contrabbandieri di petrolio, mafie di varia nazionalità e governi europei. In primo luogo quello italiano, visto che il capo riconosciuto degli scafisti e della “marina militare” libica (è la stessa persona, non ve l’avevano detto?) è stato ricevuto – “con discrezione”, ma anche con tanto di foto ufficiali – in sedi controllate dai militari e dal ministero dell’interno, in territorio italiano (il Cara di Mineo, per esempio).
Il che significa una cosa semplice, che Scavo fa intuire senza dirla esplicitamente: tutti i governi italiani degli ultimi anni hanno sottoscritto quel “patto” con gli scafisti di Al Serraj (“il nostro figlio di puttana a Tripoli”, avrebbe detto Franklin Delano Roosevelt). Petrolio contro migranti, ossia occhi chiusi sul contrabbando di petrolio con l’intermediazione di Malta in cambio del “contenimento” dei migranti nei lager di Tripoli.
Diciamo spesso che non c’è differenza tra Lega e Pd. Questa inchiesta dimostra plasticamente l’identità assoluta. Potete mettere Salvini al posto di Minniti, non avrete grandi differenze, se non una diversa sfrontatezza nell’esibirsi sui media. L’identico patto con i trafficanti di esseri umani è stato osservato da entrambi.
Non si tratta di pettegolezzi, perché ci sono documenti ufficiali dell’Onu, dopo ispezioni sul terreno e su conti bancari, ecc. Non si tratta di marachelle secondarie, perché oltre alle migliaia di migranti uccisi e torturati, c’è anche l’omicidio di una giornalista “ficcanaso” – Dafne Caruana Galizia – per cui in tanti si sono stracciati le vesti solo pubblicamente.
Notizie preziose, insomma, per stilare un giudizio anche sulla “nostra classe politica”. Tutta intera e senza alcuna eccezione.
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Petrolio e migranti. I documenti del «patto libico»
Nello Scavo – L’Avvenire
«Oil for food» la chiamavano in Iraq. Export di petrolio in cambio di cibo. Era l’unica eccezione all’embargo. Le milizie libiche hanno cambiato i fattori: «Oil for migrants».
Dovendo rallentare la frequenza dei barconi, hanno ottenuto cospicui “risarcimenti” mentre imbastivano un colossale contrabbando di petrolio. «Oil for migrants». A tutto il resto pensano i faccendieri maltesi e la mafia siciliana.
Le ultime tracce della “Libia connection” sono del 20 gennaio. In Sicilia, per questioni di oro nero, sono finiti indagati in 23, tutti vicini ai clan di mafia catanesi. Il 5 dicembre 2019 la Procura di Bologna aveva messo i sigilli a 163mila litri di carburante. Solo due giorni prima i magistrati di Roma avevano arrestato 16 persone e bloccato 4 milioni di litri di gasolio. Abbastanza per fare il pieno a 80mila utilitarie.
Secondo la procura di Trento, che aveva chiuso un’analoga inchiesta, nel nostro Paese l’evasione delle imposte negli idrocarburi può arrivare a 10 miliardi di euro. L’equivalente di una legge finanziaria.
Per venirne a capo bisogna ficcare il naso a Malta, che «rappresenta anche uno snodo per svariati traffici illeciti, come quello dei prodotti petroliferi provenienti dai Paesi interessati da una forte instabilità politica», si legge nell’ultima relazione al parlamento della Direzione investigativa antimafia.
L’episodio chiave è del 2017, quando la procura di Catania porta a termine l’operazione “Dirty Oil”, che ha permesso «di scoprire – ricorda sempre la Dia – un traffico di petrolio importato clandestinamente dalla Libia e che, grazie ad una compagnia di trasporto maltese, veniva introdotto sul mercato italiano sfruttando il circuito delle cosiddette pompe bianche».
In mezzo, però, c’è l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. La reporter maltese era stata eliminata con una bomba il 16 ottobre 2017, due giorni prima della retata che da Catania a Malta avrebbe confermato tutte le sue rivelazioni sui traffici illeciti tra la Libia e l’Europa via La Valletta. Messo alle strette, il governo dell’isola aveva chiesto sanzioni internazionali contro i boss del contrabbando di petrolio.
Ma è a questo punto che accade un imprevisto. Uno di quegli inciampi che da solo permette di comprendere quale sia la misura e l’estensione della partita. Ad agosto 2019 il Cremlino, a sorpresa, annuncia di voler porre il veto al provvedimento con cui il Consiglio di Sicurezza Onu si apprestava a disporre il blocco, ovunque nel mondo, dei patrimoni della gang di maltesi, libici e siciliani. Un intrigo internazionale in piena regola.
Un anno prima il Dipartimento del Tesoro Usa aveva disposto l’interdizione di tutti gli indagati da ogni attività negli Stati Uniti.
Tra le persone che Malta, dopo l’uccisione di Caruana Galizia, avrebbe voluto vedere con i sigilli ai conti corrente ci sono l’ex calciatore Darren Debono e i suoi associati, tra i quali l’uomo d’affari Gordon Debono e il libico Fahmi Bin Khalifa. Nomi che tornano spesso.
I tre, con il catanese Nicola Orazio Romeo, sono sotto processo perché ritenuti responsabili di un ingente traffico di gasolio sottratto ai giacimenti libici sotto il controllo della milizia Al-Nasr, quella del trafficante-guardacoste Bija e dei fratelli Kachlav. Dallo stabilimento di Zawiyah, il più grande della Libia, praticamente a ridosso del più affollato centro di detenzione ufficiale per migranti affidato dalle autorità ai torturatori che rispondono sempre a Bija, l’oro nero viene sottratto con la complicità della “Petroleum facility guard”, un corpo di polizia privato incaricato dal governo di proteggere il petrolchimico. Ma a capo delle guardie c’è proprio uno dei fratelli Kachlav.
Il porto di Zawiyah è assegnato alla “Guardia costiera” che, neanche a dirlo, è comandata sempre da al Milad, nome de guerre “Bija”, nel 2017 arrivato con discrezione in Italia durante il lungo negoziato per fermare le partenze dei migranti.
A sostenere la connessione tra smercio illegale di idrocarburi, traffico di armi ed esseri umani sono gli esperti delle Nazioni Unite inviati in Libia per investigare. Il gasolio «proviene dalla raffineria di Zawiyah lungo un percorso parallelo alla strada costiera», si legge nell’ultima relazione degli ispettori Onu visionata da Avvenire. Molte foto ritraggono proprio Bija alla guida di gruppi combattenti o impegnato su navi cisterna.
Le conclusioni confermano inoltre che l’area di Zuara, dove spadroneggia il clan Dabbashi – a seconda dei casi alleato o in rotta di collisione con i boss di Zawyah – «è stata la principale piattaforma per le esportazioni illecite via mare di prodotti petroliferi raffinati». Nei dintorni ci sono almeno 40 depositi illegali di petrolio.
Da questi impianti «il carburante – si legge ancora – viene trasferito in autocisterne più piccole fino al porto di Zuara, dove viene caricato in piccole navi cisterna o pescherecci con serbatoi modificati». A disposizione dei contrabbandieri c’è una flotta ragguardevole: «Circa 70 imbarcazioni, piccole petroliere o pescherecci da traino, sono dedicate esclusivamente a questa attività». Dalle stazioni di pompaggio i trafficanti utilizzano condutture che trasportano il carburante alle navi che sostano «tra 1 e 2 miglia nautiche al largo».
I nomi dei vascelli sono noti e riportati in diversi documenti confidenziali. Impossibile che in Libia nessuno veda. In totale «esistono circa 20 reti di contrabbando attive, che danno lavoro a circa 500 persone», spiegano gli esperti Onu. Manodopera da aggiungere alle migliaia di libici arruolati dagli stessi gruppi per controllare il territorio, gestire il traffico di esseri umani, combattere per le varie fazioni.
Le inchieste, però, non fermano il business. Il catanese Romeo, indagato nel 2017 per l’indagine etnea “ Dirty Oil”, in passato era stato ritenuto dagli investigatori in contatto con esponenti della famiglia mafiosa Santapaola–Ercolano. Ipotesi, in attesa di un pronunciamento dei tribunali, sempre respinta dall’interessato.
A confermare l’interesse di Cosa nostra siciliana per le petroliere sono arrivati i 23 arresti di gennaio. Tra gli indagati vi sono ancora una volta esponenti dei clan catanesi, stavolta della famiglia Mazzei, tornata ad allearsi proprio con i Santapaola– Ercolano. «Abbiamo riscontrato alcuni collegamenti con personaggi coinvolti nell’indagine Dirty Oil, dove era emersa proprio l’origine libica del petrolio raffinato», ha commentato dopo gli arresti il procuratore aggiunto di Catania, Francesco Puleio.
Alcuni degli indagati hanno anche «cercato nuovi canali di fornitura e sono entrati in contatto con l’uomo d’affari maltese Gordon Debono, coinvolto nell’indagine Dirty Oil».
Il collegamento tra mafia libica e mafia siciliana per il tramite di mediatori della Valletta è confermato da un’altra rivelazione contenuta nel dossier consegnato al Palazzo di Vetro a fine 2019.
A proposito della nave “Ruta”, con bandiera dell’Ucraina, sorpresa a svolgere attività di contrabbando petrolifero, gli investigatori Onu scrivono: «Secondo le indagini condotte dal Procuratore di Catania», il vascello è stato coinvolto in operazioni illegali, compreso il trasferimento di carburante ad altre navi, «in particolare la Stella Basbosa e il Sea Master X, entrambi collegati alla rete di contrabbando di “Fahmi Slim” e, secondo quanto riferito, ha scaricato combustibile di contrabbando nei porti italiani in 13 occasioni».
Quello di “Fahmi Slim” altro non è che il nome di battaglia di Fahmi Musa Bin Khalifa, il boss del petrolio di Zuara, in affari con Mohammed Kachlav, il capo in persona della milizia al Nasr di Zawyah.
A ostacolare il patto tra mafie dovrebbe essere l’operazione navale europea Irini «che ha già dimostrato l’utilità in termini di informazioni raccolte, e per l’effetto deterrenza anche sul contrabbando di petrolio», ha detto nei giorni scorsi il commissario agli affari Esteri Josep Borrel.
E chissà se l’aumento del 150% delle partenze sui barconi sia solo una coincidenza o non sia uno degli effetti di «Oil for migrants».
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