La fine della fase “populista” della politica italiana si sta avvicinando a grandi passi. I segnali sono innumerevoli e convergenti (il riposizionamento generale rispetto al referendum sul taglio dei parlamentari è forse il più evidente, non certo il principale), e conviene perciò guardare ai nuovi sentiment che si candidano a diventare il “senso comune” dei prossimi anni.
La pochezza della classe politica derivata dalla “discesa in campo” della cosiddetta “società civile” è così indecente che chiunque provi ad affondare il colpo non può trovare resistenze. Dunque prepariamoci a mandare in soffitta (quasi) tutto l’armamentario mentale escogitato da grillini e leghisti in formato Salvini, a cominciare dall’”uno vale uno”, le soluzioni semplici o immaginarie, l’odio per i “professionisti della politica”, nonché per le organizzazioni politiche gerarchiche e radicate sui territori (smantellate fin dai tempi del “partito leggero” in salsa Veltroni e “nuovisti” vari).
Del resto, la congiuntura economica, e dunque anche quella politica, pongono problemi che non si risolvono con l’improvvisazione e l’occhio incollato ai sondaggi. La pandemia ha fatto esplodere un modello economico e sociale (per gli effetti toccherà attendere ancora qualche settimana o un trimestre, nel migliore dei casi). Bisogna saperne disegnare rapidamente un altro, giocando negli interstizi di una governance europea che mette sul piatto – teoricamente – circa 200 miliardi di prestiti (che andranno restituiti).
Insomma, la UE chiede “riforme strutturali” che sono sempre le stesse (taglio della spesa pubblica, a cominciare dalle pensioni, e privatizzazioni di tutto il poco che è rimasto). E pretende che quei miliardi siano usati per tirar su l’architettura del “nuovo modello”, per il quale si sprecano termini inglesi (green, smart, digital, ecc) che ognuno può interpretare a piacere. Illusioni gratis e gabbie di ferro per tutti, in soldoni.
Se così è, il personale politico presente in Parlamento e nelle Regioni è abissalmente al di sotto della soglia minima, indipendentemente dai partiti di appartenenza (se pure li potesse chiamare “partiti” e se ci fosse davvero un senso di appartenenza, vista la facilità con cui si cambia casacca).
Milena Gabanelli, nel suo Dataroom sul Corriere della Sera e nel Tg di Enrico Mentana, su La7, ha schedato competenze e percorsi dei candidati alla presidenza della Regioni per evidenziare come questi profili sono raramente rispettino i “criteri ideali” che si richiedono a un candidato.
E qui si svelano i contorni del “nuovo ordine politico” veicolato dal duo Mentana-Gabanelli, che naturalmente sono ottimi giornalisti professionisti abituati a lavorare per editori importanti (Rai, Mediaset, gruppo Cairo-Corriere della Sera) ma che, proprio per questo, altrettanto naturalmente, “non lavorano in proprio”.
Quali sono questi “criteri ideali”? Li ha forniti, riferiscono, il politologo dell’Università Statale Nicola Pasini: buon titolo di studio, alta reputazione, zero conflitti di interesse, nessuna pendenza con la giustizia, conoscenza profonda della macchina politica e amministrativa.
Già al primo sguardo si nota che – accettando questa griglia di selezione – “la politica” è vista come attività per esperti, appartenenti ai ceti medio-alti. Il “buon titolo di studio” taglia via tutti i non laureati (immaginiamo che poi si apra la competizione tra chi invece una laurea ce l’ha, scrutinando voti, master, dottorati, ecc). L’”alta reputazione” presuppone una lunga presenza nella vita pubblica, largamente intesa, o anche il primeggiare nella propria professione specifica (non solo “vip”, insomma, ma quasi).
Due criteri che, nella vita reale di questo Paese, rendono già improbabile il terzo: “zero conflitti di interesse”. Perché è praticamente impossibile che un “ben laureato” e di “alta reputazione” non abbia amicizie tra i portatori di interessi particolati, o addirittura imprese più o meno riconducibili alla propria persona.
Gli ultimi due criteri chiudono il cerchio: “nessuna pendenza con la giustizia” dovrebbe essere un presupposto per chiunque intenda ricoprire una carica di potere pubblico. Ma sappiamo per esperienza che ci sono “pendenze” disonorevoli e procedimenti che potrebbero essere esibiti come una medaglia al valore (le lotte per affermare diritti di ogni tipo, in cui normalmente – in questo Paese – si finisce almeno denunciati).
Mortale, infine, la pretesa che un candidato abbia maturato prima ancora di candidarsi una “conoscenza profonda della macchina politica e amministrativa”. In pratica, si dovrebbe accedere a un ruolo apicale (i presidenti delle Regioni hanno in effetti molti poteri, forse anche troppi perché uno stato funzioni davvero) solo se si è già ricoperto un ruolo simile in una amministrazione di livello inferiore (municipi, comuni, province, ecc).
Diciamo che se passasse questo ragionamento, “la politica” – o più banalmente il candidarsi a una carica – dovrebbe essere una “professione” nel senso corporativo del termine. Ossia con un esame all’ingresso, l’iscrizione ad un albo, con verifica frequente dei requisiti (facilissimo perdere quello relativo alle pendenze giudiziarie…).
E in effetti Milena Gabanelli propone proprio questo quando precisa cose vorrebbe da un “politico tipo”: la produzione di risultati oggettivi nel corso della propria attività politica e l’aver svolto con successo mansioni di alta responsabilità nel caso di reclutamento dalla società civile.
Manca il requisito relativo all’età – over 40? – ma è implicito dalla somma degli altri… Il “politico” che viene qui descritto è insomma un “tecnico”, come l’avvocato o l’ingegnere, il medico o l’architetto. Professioni lodevoli dove però non è richiesta una particolare “posizione politica”. Che invece, per “far politica”, sembrerebbe proprio indispensabile.
A meno di non concepire l’amministrazione della cosa pubblica come qualcosa “né di destra, né di sinistra”, ma appunto “tecnica”. Vediamo già il ghigno di Monti e o di Draghi puntare dietro la collina…
Noi, com’è noto, veniamo da una cultura ormai più che centenaria in cui la politica è “una professione”, o più precisamente quella del “rivoluzionario di professione”. Quindi non ci scandalizza il fatto che si pretenda che i candidati a dirigere la cosa pubblica sia gente seria, provata sul campo, con grande autonomia di giudizio e moralità impeccabile.
Però sappiamo anche che “la politica” è un campo di conflitto tra interessi sociali differenti. E quindi sappiamo che “il politico migliore” è quello che sa affermare gli interessi di una parte rilevante della società per farla progredire nel suo insieme, a scapito degli interessi di un’altra parte, che la porterebbe o l’ha già portata alla catastrofe.
Non c’è infatti una “tecnica” da applicare secondo il manuale della “buona amministrazione”, ma la creazione continua di soluzioni per problemi che vanno cambiando di segno e dimensione, figure sociali interessate.
Deve farlo senza alcun tornaconto personale che non sia lo stipendio che riceve, ovviamente. Ma questo è un ragionamento opposto a quello che si è fatto passare con la “riforma” che siamo chiamati a bocciare, con un NO sonoro, domenica e lunedì.
Per concludere, almeno per ora. La sortita dei “due bravi giornalisti” illumina sul tipo di “riforma della politica” che sta maturando ai piani alti dell’establishment italiano ed europeo. “Tecnici esecutori”, sperimentati fin dai livelli di responsabilità più bassi. Esecutori che non si fanno domande sul “perché” di una certa scelta o di un’altra, ma si adeguano agli ordini.
Chiamarla democrazia è alquanto eccessivo, non pensate?
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Mario Galati
Grazie per la solita incisività di Dante Barontini, il quale, però, forse non ha sottolineato che, accanto ai tecnocrati borghesi “competenti” monopolisti della politica, ossia, oligarchi-mediatori degli interessi della loro classe di riferimento, la nostra classe dominante, attraverso il Gabanelli-pensiero, non poteva rinunciare a proporre anche la gestione diretta dei suoi interessi di classe.
E infatti, tra i requisiti per far parte della tecnocrazia borghese, la signora Gabanelli include: “l’aver svolto con successo mansioni di alta responsabilità nel caso di reclutamento dalla società civile”, ossia, essere imprenditori o “managers”.
Ecco onnipresente la stucchevole e rivoltante retorica classista, più che trentennale, borghese e piccolo-borghese della cosiddetta “società civile”, della quale però fanno parte soltanto loro, i borghesi e i piccolo-borghesi (imprenditori, professionisti, intellettuali colti o semicolti, ceti medi, insieme alle loro organizzazioni), con buona pace di Hegel, di Marx e dell’origine di questo concetto.
Questa retorica della società civile è populista e classista allo stesso tempo, cioè, antidemocratica. E Barontini evidenzia bene come i Veltroni e compagnia vi stanno dentro sino al collo.
Il conflitto tra liberali illuminati e demagoghi populisti è soltanto una messinscena. In realtà, preteso illuminismo borghese e vituperato populismo plebeo si tengono insieme: il loro denominatore comune è la distruzione della democrazia di massa e delle organizzazioni dei lavoratori.