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La UE compra tempo e approva il Recovery Fund

Miracolo! Il bilancio dell’Unione Europea – che contiene anche la parte relativa al Recovery Fund – è stato approvato dal Consiglio Europea (il vertice dei capi di Stato e di governo). Ora la palla torna ai Parlamenti nazionali, per la ratifica.

Elemento secondario, ma spacciato per “decisivo”, il venir meno del veto posto un paio di mesi fa da Polonia e Ungheria. Ci avevamo scommesso, qualche giorno fa, quando alcuni europarlamentari e funzionari dei due paesi, a Bruxelles, vennero beccati in un festino gay (nonostante fossero tutti ufficialmente macho, omofobi, fedeli credenti e difensori arcigni della “famiglia tradizionale”).

Immaginario boccaccesco a parte, abbiamo visto all’opera come funziona praticamente questa strana istituzione sovranazionale che impone ai singoli Stati politiche che non adotterebbero mai, in nome e per conto dei “mercati”: ricatti legali (i trattati e lo spread) o extralegali (operazioni dei “servizi”). Solidarietà e obbiettivi comuni… pochini, diciamo.

I dettagli del piano straordinario rinominato NextGenerationEU sono quelli già noti, ma è bene ricordarli: nessun “regalo”, ma prestiti da restituire. E non deve sfuggire la contemporanea “riforma del Mes”, che consente di utilizzare un meccanismo ancora più distruttivo e ricattatorio, allargandone il raggio di azione alle banche, oltre che agli Stati (l’unico che vi abbia fatto ricorso, ricordiamo sempre, è la Grecia; e i “risultati” si sono visti…).

Il “segreto” del fondo NextGenerationEU è in fondo semplice: gli Stati nazionali si impegnano pro quota nel crearlo (una “cassa comune”), la UE emette titoli garantiti con “tripla A” (e quindi bassissimo tasso di interesse) per rastrellare quella cifra sui mercati finanziari e quindi redistribuisce tra gli Stati seguendo il criterio del maggior bisogno. La restituzione ai creditori avverrà nel tempo e sempre pro quota. Insomma: nessuno ci regala niente, accendiamo un mutuo a tasso quasi zero ma con moltissime condizioni-capestro.

Per l’Italia, in particolare, si parla di un totale di 209 miliardi da “ricevere”, di cui 80 cosiddetti “a fondo perduto” (per le spese straordinarie sostenute a causa della pandemia) e il resto vincolati a un “piano” che deve essere approvato dalla Commissione (il “governo” della UE a 27).

Ci dovrebbe essere una differenza positiva, questa volta, tra quanto lo Stato italiano mette nella “cassa comune” e quello che poi riceve (storicamente è avvenuto il contrario, con l’Italia nella posizione di “contributore netto”), ma non è detto.

Dipenderà da come il governo italiano darà vita ai passaggi concreti di quel “piano” ancora tutto da scrivere e su cui si sono già scatenati gli appetiti delle diverse consorterie affaristiche chiamate “partiti”.

Ad ogni passaggio, infatti, la Commissione Europea valuterà quanto è stato fatto o previsto, ed erogherà oppure no una “rata” del finanziamento complessivo.

Il rischio molto concreto è che se i programmi del governo non saranno “apprezzati”, oppure se la realizzazione di alcune parti sarà deficitaria (cosa facilissima, conoscendo la storia degli investimenti pubblici e delle ruberie private in questo Paese), qualche rata possa saltare e dunque si ridurrebbe l’importo finale complessivo.

Ma è soprattutto il cosa pretende l’Unione Europea che dovrebbe preoccuparci.

Secondo le indicazioni già date, molto simili a quelle degli ultimi 30 anni, quegli investimenti dovranno essere indirizzati a “realizzare riforme strutturali” in grado di “aumentare la competitività” del sistema italiano. Parole apparentemente neutre, che però vanno applicate al solito modello export oriented adottato da tutta la UE, su input fondamentalmente tedesco.

Secondo quel modello, scriviamo da anni, devono scendere i salari e in generale le tutele del lavoro dipendente, va smantellato quanto resta del welfare (dalle pensioni alla sanità pubblica, dall’istruzione agli ammortizzatori sociali, ecc), va assicurata la massima libertà ai capitali.

Non è un’illazione. Pochi giorni fa, in piena pandemia e crisi economica da lockdown, questa UE ha chiesto alla Spagna di abbassare le pensioni e rivedere (in senso peggiorativo) la legislazione che regola il “mercato del lavoro”.

Cosa significa? Che nonostante la gravissima crisi in atto, prevedibilmente estesa anche all’intero 2021, questo assetto “europeo” non intende cambiare impostazione. Si chiama ordoliberismo, ed è una variante teutonica del neoliberismo classico, che prevede un intervento dello Stato ma solo come “regolatore” delle dinamiche del mercato. Ossia attivo soprattutto nel rimuovere gli “ostacoli” al libero dispiegamento del capitale privato.

In termini marxiani, possiamo dire che questa impostazione si fonda sull’estrazione di plusvalore assoluto, ovvero sull’aumento dell’intensità del lavoro e/o il prolungamento dell’orario, a parità o addirittura con riduzione del salario medio.

Una strategia complessiva di riduzione dei costi e aumento dello sfruttamento che sembra geniale ma è un’idiozia a lungo termine. Non a caso quando la “globalizzazione” ha cominciato a segnare il passo, con la creazione progressiva di macroaree continentali più “protette” (guerra dei dazi, delle monete, delle legislazioni mercantili, ecc), chi si era affidato alle esportazioni come driver della crescita è entrato in profondissima crisi. Almeno dal 2008 in poi.

Al contrario, chi ha puntato sull’estrazione di plusvalore relativo – innovazione tecnologica, sia di prodotto che di processo – è riuscito a prolungare la crescita economica anche in tempi di crisi mondiale.

Ma soltanto chi ha seguito questa seconda strada – a cominciare dalla Cina – ha potuto creare una domanda interna in grado di compensare, o superare, il minor contributo delle esportazioni sul mercato globale. Ma stimolare la domanda interna significa aumentare i salari; molto e sul lungo periodo.

Detto in parole povere: il “modello tedesco-europeo”, in questi anni, riesce ancora ad esportare, ma sempre meno, a causa della contemporanea crisi mondiale. E non ha più da decenni – perché l’ha distrutta volontariamente – una domanda interna in grado di assorbire la produzione possibile.

Peggio ancora. Anche all’interno dell’area europea quel modello ha creato una distorsione fenomenale tra i settori export oriented, che bene o male sono riusciti a sopravvivere in questi ultimi 12 anni, e quelli finalizzati al “mercato interno”, ossia specializzati nella produzione di merci-salario e servizi relativi, per i consumi di massa. Qui i salari bassi stanno da tempo bloccando la domanda ai puri livelli di sopravvivenza.

Il che per un verso blocca la crescita complessiva, per l’altro si traduce in tensioni sociali (soprattutto in Francia) oppure in nascita di movimenti “nazionalisti” che corrispondono esattamente alla tipologia di imprese che rischiano il fallimento. Ma che rischiano di far breccia anche tra grandi masse di lavoratori impoveriti, precarizzati, sull’orlo del licenziamento.

La “vittoria truccata” dell’Unione Europea, a bene vedere, serve a comprare qualche mese di tempo, non a cambiare le regole di gioco.

Chi se ne mostra oggi contento dovrebbe invece preoccuparsene. Perché i mostriciattoli cacciati dalla porta, trovando sempre le stesse condizioni di riproduzione, ricominceranno a bussare alle finestre. Più incattiviti (e magari con qualche bastardo meno ricattabile).

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