Ieri ho vissuto una delle esperienze più toste e formative che possa vivere un militante politico e sociale. Ieri sono entrato in quell’inferno in terra che va sotto il nome di Poggioreale. Fortunatamente non ci sono entrato da detenuto ma nella comoda veste di accompagnatore/collaboratore delle nostre parlamentari della componente Manifesta.
Paola Nugnes e Doriana Sarli hanno, infatti, coraggiosamente risposto all’appello lanciato dai garanti dei detenuti perché nella campagna elettorale venga messo al centro il tema delle carceri e dei diritti dei detenuti.
Non è facile descrivervi quello che ho provato e non vi nascondo che in taluni momenti ho sentito un vero e proprio malessere fisico nel vedere quel girone dantesco. Lo stesso malessere che ho letto negli occhi del mio fratellone Marco Manna anche lui venuto a supportare le nostre parlamentari.
La cosa assurda è che sono stato male pur essendo già perfettamente a conoscenza di qual è la situazione lì dentro. Sono anni che mi mobilito sulla questione delle carceri, conosco benissimo tutti i dati e ho parlato con tanti che hanno avuto la sfortuna di finire dietro le sbarre ma vedere certe cose con i propri occhi è qualcosa di totalmente diverso. È qualcosa che ti cambia per sempre.
Ma come posso farvi capire a parole la condizione di 10 uomini rinchiusi in una stanza ammuffita di 20 metri quadri per 20 ore al giorno? O quella di una trans reclusa in una cella poco più grande di un ripostiglio di casa? Come descrivere la mancanza di aria, luce, l’afa? Io onestamente non ne sono capace.
Probabilmente bisognerebbe consentire l’accesso alle carceri a tutte le cittadine e tutti i cittadini per fare aumentate il livello di consapevolezza ed impedire che si parli di galera con tanta leggerezza. Forse all’Ex-Opg dovremmo dare la possibilità di chiudersi per qualche ora in una cella per poter soltanto intuire la sofferenza di chi è recluso in quelle condizioni.
Ad attenderci all’esterno c’era un presidio fatto da movimenti, associazioni, amici e parenti dei detenuti. Quando siamo usciti il primo slogan che hanno scandito è stato “BASTA SUICIDI!”.
Pochi lo sanno ma in Italia il tasso di suicidi in carcere è 16 volte quello della popolazione libera. Da inizio anno sono più di cinquanta le persone detenute che si sono tolte la vita. Noi però sbagliamo a parlare di “suicidi” perché questi sono veri e propri omicidi, omicidi di Stato. Se fai vivere le persone in quelle condizioni, se non gli fornisci un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, se non gli fai svolgere alcuna attività è normale che ad un certo punto qualcuno non ce la faccia più e piuttosto che continuare a soffrire decida di togliersi la vita.
Il carcere in Italia è un luogo disumano, ingiusto e anche illegale dal punto di vista costituzionale. Soprattutto però il carcere è un inganno. Come spesso ricorda Don Franco, Cappellano di Poggioreale, se il carcere fosse un’azienda sarebbe già fallita e i suoi dirigenti tutti licenziati. Con una recidiva al 62% è infatti evidente che le prigioni così come sono non producono maggiore sicurezza.
La quasi totalità della politica specula sul giusto e legittimo diritto di cittadine e cittadini alla sicurezza ma l’unica soluzione che propone è sempre la stessa: più carcere. Una soluzione che i dati italiani e internazionali dicono essere fallimentare. Ma d’altronde chi ha costruito la sua fortuna politica sulla paura perché dovrebbe provare a risolvere realmente il problema?
Non possono dire la verità, non possono ad esempio dire che la recidiva sia estremamente più bassa tra chi riesce ad accedere alle misure alternative.
Addirittura non vengono commissionati studi su questo tema. Gli ultimi dati disponibili risalgono al 2007 e confermavano che solo il 19% degli affidati ai servizi sociali tornava a delinquere nei 7 anni successivi. Non ci vuole molto a capire che se esci dal carcere abbrutito e senza prospettive facilmente tornerai a commettere reati mentre se hai avuto la possibilità di riflettere serenamente e costruirti un percorso di vita difficilmente tornerai dietro le sbarre.
Un’ ovvietà che però nessuno vuole dire, perché va contro il senso comune e non porta voti.
Per il Potere la cosa più importante è non far capire la strettissima relazione tra condizioni socioeconomiche e propensione a delinquere. La narrazione deve essere che ci sono i “buoni” e i “cattivi”. Il fatto che i “cattivi” vengano quasi sempre dalle classi più svantaggiate deve essere considerata una pura casualità.
Se vogliamo una società realmente più sicura serve un sistema penitenziario più umano e serve mettere mano alle diseguaglianze assicurando un’esistenza dignitosa a tutte e tutti.
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