Quello a cui stiamo assistendo con lo sviluppo del “quarto conflitto” arabo-israeliano, non è solo la riaffermazione di una contrapposizione storica – con al centro la questione palestinese – tra Stati Arabi e Israele.
É altresì un salto di qualità nell’accelerazione dell’inasprimento delle relazioni internazionali e della polarizzazione politica, che vede contrapposta la leadership euro-atlantica alleata di Israele non solo contro il Sud Globale (a cominciare dal mondo arabo e mussulmano), ma anche contro una parte rilevante della propria opinione pubblica che ha deciso di non allinearsi con il proprio imperialismo.
In queste settimane era stato l’asse franco-tedesco, tradizionale traino politico dell’Unione Europea, ad aver avuto l’atteggiamento filo-israeliano più risoluto.
Ma la riuscita delle mobilitazioni in Europa è stato uno smacco che si è trasformato in un boomerang per Parigi e per Berlino, così come per Londra, altra storica castigatrice dei palestinesi e tradizionale alleata del sionismo.
Le mobilitazioni di queste settimane per la Palestina sono un fatto estremamente significativo, che per estensione e partecipazione non trovano uguali nell’ultimo trentennio, quello in cui la globalizzazione neo-liberista a trazione statunitense aveva imposto la propria egemonia ed il dominio del modo di produzione capitalista.
Sono un fatto che rende ulteriormente dinamico il clima politico in alcuni contesti – o lo fa uscire dalla pressoché totale letargia, come nel nostro Paese – sollecitando la sinistra di classe a svolgere un ruolo attivo in una situazione in movimento, dove è la cronaca che ci parla in maniera inequivocabile di una montante tendenza alla guerra.
In un contesto differente – visti i rapporti di forza internazionali allora vigenti, quando non vi era di fatto nessuno Stato, né nessun “blocco”, in grado di contrapporsi realmente ai desiderata di Washington – bisogna risalire al movimento di solidarietà che si espresse durante la Seconda Intifada (2000-2005), o in prossimità dello scoppio della guerra dell’Iraq nel 2003, per vedere manifestarsi una mobilitazione di massa così ampia ed estesa, con un indirizzo unitario su una questione dirimente.
É ovviamente nel mondo arabo e mussulmano che tale tendenza si è manifestata più chiaramente, ma mobilitazioni oceaniche stanno attraversando anche il resto del globo e l’Occidente, anche nel mondo anglo-sassone (USA, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda).
Attori rilevanti come Russia e Cina – possibili artefici di una futura mediazione internazionale – hanno preso posizioni risolute.
Ciò che sta accadendo è forse la manifestazione più evidente del processo di politicizzazione delle contraddizioni su scala globale, e forse bisogna tornare al movimento contro la guerra in Vietnam per trovare mobilitazioni così partecipate ed estese, con un chiaro segno anti-imperialista ed internazionalista.
Allora con la Resistenza vietnamita contro gli USA ed il loro “Stato Fantoccio”, oggi con la Palestina ed il mondo arabo contro Israele ed i suoi alleati occidentali.
Mobilitazioni ignorate da una vera e propria censura organizzata da parte dei media mainstream occidentali, ma che gli strumenti di informazione digitali riportano diffusamente, aumentando il processo di delegittimazione di quest’arma spuntata della propaganda.
Le mobilitazioni in corso e il ripudio della propaganda mediatica sono un aspetto fondamentale che cambia il quadro politico alla vigilia di una molto probabile guerra regionale dalle conseguenze internazionali, specie se Israele deciderà di passare alla “fase due” della sua reazione, invadendo da terra la Striscia di Gaza e proseguendo il processo storico di pulizia etnica.
Dopo i conflitti del 1947-’49, del ’67 e del ’73 siamo sul punto di un conflitto su larga scala a livello regionale che non solo coinvolge palestinesi ed israeliani a Gaza e nella West Bank, ma contrappone Hezbollah e Stato Ebraico ai confini israeliano-libanesi, oltre che Damasco a Tel Aviv, e coinvolge anche le forze della resistenza in Iraq che attaccano le postazioni statunitensi e fanno pressioni sul confine per raggiungere i palestinesi in Giordania; e non ultimi i ribelli yemeniti, che avevano tirato tre missili in direzione di Israele.
A sostenere la Palestina vi è poi la leadership e le popolazioni dei paesi del cosiddetto “nuovo fronte del rifiuto”: Iran, Algeria, Siria ed Iraq.
Dentro questa “guerra guerreggiata” che si è sviluppata come conseguenza della reazione israeliana dell’operazione palestinese “Diluvio di Al-Aqsa” del 7 ottobre, su pressione della propria opinione pubblica e dei movimenti filo-palestinesi dei rispettivi paesi, si stanno sgretolando i rapporti di normalizzazione che alcuni Stati Arabi avevano storicamente intrapreso con Israele – l’Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994 – e si vanno complicando le loro relazioni con l’Occidente, come dimostrano sia il mancato incontro di Joe Biden ad Amman la scorsa settimana con Mohamed Abbas e Re Abdallah II di Giordania, sia il nulla di fatto del “Summit della Pace” convocato da Al-Sisi in Egitto questolo scorso fine settimana.
Allo stesso tempo è stato messo sotto forte pressione il consolidamento delle relazioni tra i Israele ed i paesi che avevano sottoscritto i cosiddetti “Accordi di Abramo” dell’estate del 2020: EAU, Bahrein, Marocco e Sudan.
L’Arabia Saudita, che era in procinto di normalizzare le proprie relazioni diplomatiche con Israele con l’intermediazione dell’amministrazione statunitense, ha sospeso tale processo.
Siamo forse ad un “punto di non ritorno” delle relazioni arabo-israeliane anche per tre fattori convergenti assolutamente rilevanti.
Il primo è l’unitarietà della Resistenza palestinese che è il riflesso di una nuova generazione di combattenti, di cui si potevano scorgere le caratteristiche nella West Bank già da questa estate, e che sono espressione di un popolo che come l’Araba Fenice risorge combattendo contro il suo principale nemico per non farsi cancellare, nonostante le avverse condizioni.
Il secondo è, la marginalizzazione politica di quella leadership palestinese che aveva creduto di trovare la propria forza più dall’accreditamento occidentale come partner affidabile, tendente al “compromesso facile”, che dalla capacità di rappresentare i bisogni di una popolazione che vive uno status quo insopportabile e senza prospettive, dopo lo svuotamento totale dei già deficitari Accordi di Oslo.
Il terzo è la situazione politica israeliana, in cui vi è una trasversale e pressoché totale volontà nel quadro politico parlamentare di procedere con la guerra guerreggiata senza prefigurare alcuna altra soluzione, con la militarizzazione del “fronte interno” a discapito di chi non si allinea alla volontà bellicista ed una feroce repressione di chi dissente, in particolare per ciò che riguarda i cittadini arabo-israeliani – o più correttamente i “palestinesi del ’48” – già sottoposti all’apartheid.
La volontà di perseguire manu militari la “soluzione finale” a Gaza e nella West Bank, vanno a braccetto con l’ulteriore fascistizzazione di Israele a cominciare dalla sua leadership, e l’emergere del lato profondamente filo-colonialista dell’imperialismo euro-atlantico.
Siamo ad un “muro contro muro” dove anche in Occidente è imprescindibile scegliere da che parte della barricata porsi e soprattutto mobilitarsi.
Siamo assolutamente dentro ad una tempesta della Storia.
É un contesto dove si moltiplicano le faglie di frattura di questa “terza mondiale a pezzi” – oggi l’Ucraina e la Palestina, domani probabilmente Taiwan – , e non ci sono cornici internazionali che possono fungere da luoghi di mediazione di uno scontro che si approfondisce. Né, lì dove le ferite non sanate incancreniscono, vengono prefigurate exit strategy concrete per invertire la tendenza all’escalation.
Dall’Italia, che è un paese dell’Alleanza Atlantica ed ha un rapporto di cooperazione strategica con Israele, con una leadership politica filo-atlantica e filo-sionista piuttosto indecente, deve alzarsi una voce chiara e non aggirabile contro l’imperialismo euro-atlantico ed in favore della Resistenza palestinese, senza se e senza ma, in grado di imporsi nell’opinione pubblica.
Per questo la manifestazione nazionale del 28 ottobre a Roma, a fianco della Palestina, e quella del 4 novembre sono appuntamenti imprescindibili e complementari che devono rafforzarsi a vicenda, per costruire un duraturo movimento contro la guerra ed in appoggio alla resistenza dei popoli che si inserisca.
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