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Il “premierato de noantri”, tra nani, ballerine e vecchie glorie

Il disegno di legge 935 che si occupa della “Riforma del premierato”, già approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 novembre 2023, è l’ennesima picconata all’assetto costituzionale del paese presentata però dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal Ministro delle Riforme Istituzionali Casellati già a novembre scorso.

Il testo, nella formulazione attuale, si propone di modificare gli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione.

La Commissione permanente affari costituzionali del Senato, dal 28 novembre 2023 ha effettuato numerose audizioni informali di esperti in materia.

Per modificare la Costituzione sono richieste due deliberazioni da parte di entrambe le Camere a una distanza minima di tre mesi una dall’altra. Se nel corso della seconda votazione entrambe le Camere dovessero approvare il testo con la maggioranza dei 2/3 dei componenti il testo sarà approvato.

Se però tale maggioranza non dovesse essere raggiunta il testo dovrà essere sottoposto a un referendum popolare, che andrà richiesto da 1/5 dei membri di ogni Camera, da 500.000 elettori o da 5 Consigli regionali, entro 3 mesi dalla pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale.

Le modifiche cui punta il testo del disegno di legge sono le seguenti:

a) l’elezione diretta del Presidente del Consiglio con la consultazione popolare;

b) il rafforzamento della “stabilità” del Governo grazie alla previsione di un sostanzioso “premio di maggioranza” per i partiti che sostengono il Premier;

c) abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica

Per serietà occorre rammentare che l’ambizione a modificare una Costituzione ancora troppo ispirata a garanzie sociali e democratiche invise ai poteri forti non nasce con il governo Meloni.

Non paradossalmente il vaso di Pandora lo ha aperto il centrosinistra nel 2001, con Bassanini e il governo Amato, modificando il Titolo V della Costituzione per introdurre il “federalismo” e spianare così la strada a quella che oggi è la legge sulla “autonomia differenziata” a lungo auspicata dalle regioni di impronta leghista e liberista.

Poi ci aveva provato il governo Renzi, ma si era rotto i denti con il referendum costituzionale del 2016, che vide sconfitta la sua legge di modifica costituzionale.

A chiarire il senso politico vero di questi tentativi era stato però Joe Dimon, ceo della banca d’affari internazionale JP Morgan, chenel pieno della crisi finanziaria 2007/2008 – aveva esplicitamente affermato che era ora di abolire le Costituzioni che prevedevano troppe garanzie sociali e democratiche (“troppo socialiste”).

In realtà è proprio questo il nerbo della questione. La crisi del modello liberale occidentale, dentro le contraddizioni dell’economia mondiale e il clima di guerra incombente, vede la liquidazione della democrazia e il rafforzamento del comando come esigenze ormai imprescindibili per provare a sopravvivere.

Il governo liberalfascista della Meloni è completamente dentro questo processo, con la variante, tutta italiana, dell’ambizione a riscrivere la storia del paese sdoganando il revanscismo dell’identità neofascista.

Per illustrare “degnamente” questa ennesima riforma controcostituzionale, Giorgia Meloni ha organizzato un happening, più che un convegno, ieri alla Camera.

Le riforme istituzionali sono infatti materia difficile da capire e da spiegare, quindi insieme ai politici è stata invitato anche un piccolo “atollo dei famosi” con cantanti, attori, sportivi che si sono messi a disposizione del potente di turno.

Una riedizione modestra dei “nani e ballerine” dei tempi di Craxi, o ancor meglio di quelli berlusconiani. “Vecchie glorie” della canzone come Iva Zanicchi, Pupo e Amedeo Minghi, attrici come Claudia Gerini, ex sportivi come il nuotatore Filippo Magnini e la schermitrice Elisa Di Francisca.

A fare il procacciatore di Vip è stato Gianmarco Mazzi, ex direttore artistico di Sanremo diventato nel frattempo sottosegretario alla cultura in quota Fratelli d’Italia.

Ma il tentativo di rendere “pop” riforme istituzionali che sgangherano ulteriormente la Costituzione non può più nascondere la volontà dei neofascisti al governo di destrutturare definitivamente l’assetto costituzionale del paese emerso dalla Resistenza e dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non a caso “fondato sul lavoro”.

E’ la mission che la destra neofascista italiana non ha mai nascosto, ma solo rinviato a quando le condizioni materiali l’avrebbero reso possibile. Con i “liberali” che, come sempre, lasciano fare per salvaguardare l’unica libertà che sta davvero loro a cuore. Quella delle imprese e della finanza.

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1 Commento


  • Matteo

    Rivoltante teatrino. Tuttavia se il 50% di elettori non preferisse crepare nell’ignavia del non voto, sicuramente per questa masnada di volgari tirapiedi e figuranti di quart’ordine sarebbe molto complicato sventrare la Costituzione antifascista. Chissà perché ma ho brutte sensazioni anche in vista del referendum perché lo scoramento e la disaffezione è di gran lunga più alto di quando nel 2016 venne platealmente cassato il progetto renziano di “riforma”. Secondo me il governo reazionario fascistoide in carica ha fiutato anche questo fattore. Servirà una grande mobilitazione.

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