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L’impatto delle spese militari su occupazione e produttività del lavoro

Stando all’ultima rilevazione ISTAT, la produzione industriale italiana nel gennaio 2025 continua a ridursi. A fronte, infatti, di un miglioramento mensile del 3,2%, il dato tendenziale rimane negativo, con un calo dello 0,6% rispetto all’anno precedente. I settori più colpiti solo quelli del lusso, della produzione di automobili e del tessile-abbigliamento.

Inoltre, il settore automobilistico italiano è, in larga misura, composto da imprese che operano per la subfornitura all’industria tedesca e subisce, soprattutto per questa ragione, una rilevante contrazione di ordinativi e, dunque, di fatturato e profitti. Si calcola, a riguardo, che la recessione tedesca ha prodotto perdite per le imprese italiane nell’ordine dei quattro miliardi di euro nel 2024 per mancate esportazioni.

Nonostante la propaganda governativa, si registrano segnali conseguentemente negativi nel mercato del lavoro. Istat ha recentemente rilevato una riduzione del monte ore lavorate nei settori industriali, con un calo dello 0,7% nel quarto trimestre del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023, accompagnato da una diminuzione dell’1,2% delle ore lavorate per dipendente nello stesso arco temporale. Si tratta di decrementi che si aggiungono al calo del 7,2% del valore del fatturato industriale registrato a dicembre 2024, con una riduzione ancora più marcata, fino al -7,7%, sul volume del fatturato.

Anche l’Inps, nel suo ultimo Rapporto del gennaio 2025 ha certificato un aumento significativo del 47,59% delle ore di cassa integrazione ordinaria nei settori industriali, passando da 208.173 milioni di ore nel 2023 a 307.247 milioni nel 2024. Il rallentamento della crescita è certificato anche dall’Ufficio parlamentare di bilancio).

Anche il tasso di crescita della produttività del lavoro continua a manifestare andamenti negativi o, nella migliore delle ipotesi, stazionari. ISTAT certifica che il tasso di crescita della produttività, in Italia, si è ridotto del 2.5% nel 2023 ed è aumentato di un modesto 0.5% nel periodo 2014-2022.

In questo scenario, è ragionevole attendersi che l’aumento delle spese militari (al 5% del Pil in dieci anni) non potrà che peggiorare il quadro, incidendo negativamente su queste variabili, per due ragioni.

  1. L’aumento della spesa pubblica per la Difesa tende a produrre la spontanea riconversione delle imprese verso la produzione di armi. Le ingenti commesse che ne derivano si rivolgono a un settore tipicamente ad alta intensità di capitale, nel quale sono necessarie elevate spese iniziali e nel quale è tendenzialmente basso l’effetto degli investimenti sull’occupazione. Lo scenario peggiora se si considera la volontà del Governo (esplicitata, in particolare, dal Ministro Urso) di incentivare la riconversione delle imprese verso il settore della Difesa, dal momento che questa misura produrrebbe ulteriori oneri a carico della finanza pubblica con esiti inefficaci.

  2. Per stimare l’impatto dell’aumento della spesa pubblica sul Welfare occorre considerare che il nuovo Patto di stabilità e crescita impone all’Italia (Paese con debito pubblico superiore al 90% del Pil) un sentiero di rientro pari a una media dell’1% annuo. È stato calcolato che, in costanza di tasso di crescita del Pil e dei tassi di interesse sui titoli di Stato, l’ammontare di risorse pubbliche da destinare alla Difesa è pari a un incremento medio annuo di 6.4 miliardi di euro).

La teoria economica – fin dal pionieristico contributo del premio Nobel Gunnar Myrdal (Beyond the Welfare State) – insegna che l’accesso diffuso a sanità e istruzione è una fondamentale precondizione per un’elevata produttività del lavoro. Non è poi molto rilevante l’obiezione dei fautori del riarmo, per i quali la spesa pubblica per la difesa militare produce innovazione, se si considera il rilievo del Ministro Crosetto per il quale la gran parte di questa spesa è destinata a stipendi e pensioni.

Le politiche di riarmo accentuano il sottofinanziamento del Welfare italiano (solo il 12% della spesa pubblica italiana è destinata alla sanità, a fronte di una media europea del 15%, e solo il 7% è destinato all’istruzione, contro il 9,3% europeo) e, per questa via, rischiano di accentuare uno dei problemi fondamentali della nostra economia, ovvero il calo di lungo periodo del tasso di crescita della produttività del lavoro.

* professore ordinario di Storia del pensiero economico, Università del Salento

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